1919-1945


Le speranze di poter godere finalmente di un lungo periodo di pace e di sviluppo e le aspettative per una società con un benessere più diffuso e senza guerre furono le grandi linee politiche e sociali che portarono, nel 1919, durante la conferenza di pace di Versailles alla creazione della Società delle Nazioni.
     Frutto di lunghe mediazioni e di visioni progettuali globali e planetarie specie americane, britanniche e francesi, questo super-organismo mondiale, avrebbe dovuto costituire il cardine fondamentale di una "nuova diplomazia" che avrebbe regolato in modo più diretto e continuo i rapporti tra tutte le nazioni e i loro popoli.
     In quella che fu considerata la "carta fondamentale" della creazione della Società delle Nazioni gli stati aderenti si impegnavano solennemente a rispettare l'integrità territoriale e l'indipendenza politica degli altri membri e a non ricorrere alla guerra per derimere le questioni e le tensioni in atto.
     Erano previste pesanti sanzioni economiche e, nei casi di maggior rilevanza internazionale, si poteva giungere al completo isolamento politico nei confronti di chi avesse violato questi impegni.
     La sede della Società delle Nazioni fu posta in Svizzera, a Ginevra e il Consiglio era composto da 5 membri permanenti (USA, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone - le nazioni vincitrici la guerra) e da 4 temporanei eletti dall'assemblea generale ogni tre anni.
     Fuori dai luccicanti palazzi ginevrini e lontano dalle sontuose dimore di magnati, principi, Re e Imperatori che, sopravvissuti alla guerra, insieme ad una nuova classe di arricchiti, potevano festeggiare la "loro" vittoria, il resto del mondo (quello della gente comune, dei combattenti, dei mutilati e invalidi, dei reduci, degli orfani e dei moltissimi poveri, al limite della indigenza e della fame) si stava leccando le "profonde ferite" prodotte da uno scontro armato che non aveva mai avuto precedenti, in tempi relativamente concentrati, per dimensioni, paesi e nazioni coinvolti ed effetti, nella sua pur travagliata e bellicosa storia dell'Umanità.
     Il numero delle vittime della guerra (morti, dispersi, feriti e prigionieri) fu così elevato da rendere praticamente impossibile, per gli ex belligeranti, avere a disposizione una contabilità precisa al riguardo.
     Nel 1919, con una certa approssimazione, venne calcolato, che, solo tra i militari, vi furono circa nove milioni di morti.
    

20.000.000 di morti
Nonostante il fatto che la rivoluzione bolscevica avesse messo fine al conflitto sul fronte orientale, nel novembre del 1917, fronte che per numero di vittime era stato il più cruento, le vittime dell'ultimo anno di guerra (1918) eguagliarono o addirittura superarono quelle dei tre anni precedenti.
     In parte ciò fu dovuto alla titanica offensiva tedesca sul fronte occidentale del marzo 1918, ma si combatté duramente anche sul fronte Italiano, nel medio Oriente e nei Balcani ma, l'alto numero delle "vittime" nel 1918, fu poi anche dovuto alla comparsa tra le truppe della "spagnola".
     L'influenza spagnola, altrimenti conosciuta come la "grande influenza" ebbe questo nome poiché il suo proliferare fu riportato inizialmente soltanto dai giornali spagnoli e portoghesi. La penisola iberica non era coinvolta nel conflitto mondiale e la sua stampa non era dunque soggetta alla censura di guerra e, mentre nelle altre nazioni belligeranti la violenta epidemia veniva tenuta nascosta, i giornali (almeno quelli più imparziali) per mesi scrissero solo di una forte influenza circoscritta alla Spagna (da qui il nome di "spagnola" che venne adottato dalla pubblicistica europea).
     Sebbene non sia stato possibile quantificare con esattezza né il numero dei contagiati, né quello delle vittime, secondo un'attendibile stima, dall'ottobre del 1918 all'aprile del 1919, il morbo infettò un quarto della popolazione mondiale e sterminò ben oltre 50 milioni di persone di cui ben più di 20 milioni di morti solo in Europa.
     La "Spagnola" fu un pericolo che si rilevò addirittura più letale e spaventoso del conflitto appena chiuso e che piombò su una Europa profondamente modificata sul piano politico e territoriale e piena di speranze ma stremata, impoverita e incapace di reagire a fondo a quest'altra disgrazia.
     Dalle relazioni mediche del tempo, gli scienziati, che stavano studiando questo morbo, constatavano che la malattia aveva caratteristiche simili a quelle riscontrabili nella peste nera, al colera, al tifo e al vaiolo messi insieme: inizialmente, fu dunque scambiata per dengue, colera e tifo.
     I sintomi erano diversi: tosse, dolori lombari, febbre, emorragia delle mucose (naso, stomaco, intestino), emorragie petecchiali.
     Subentrava la fase acuta con patologie simili a quelle della polmonite oppure i polmoni si riempivano di sangue e la morte subentrava in poche ore.
     Anche uomini forti e in ottima salute, appena infettati, potevano morire nell'arco di una sola giornata.
     La maggior parte dei decessi si ebbe però per infezioni, per complicanze batteriche, del tutto incurabili in quanto gli antibiotici non erano ancora in uso (la penicillina fu scoperta da Fleming solo dieci anni dopo, nel 1928).
     Che non si trattasse di una normale influenza lo si comprese anche dal fatto che di solito le infezioni virali colpiscono le persone più deboli, cioè i bambini ed i vecchi, mentre la "spagnola" interessò selettivamente e in stragrande maggioranza individui dai 20 ai 40 anni.
     Da alcuni anni la storiografia e gli studi medici, specie dal secondo dopoguerra resero pubblica una versione agghiacciante, che ha avuto parziali conferme solo da pochi anni (1999 - 203): l'epidemia fu causata da un virus probabilmente creato dall'uomo, in laboratorio e per scopi bellici, finalizzata alla decimazione delle truppe al fronte.
     Per comprendere questa "arma per la guerra biologica" bisogna rifarsi alle modalità e alle tecniche di combattimento della Grande Guerra: l'enorme conflitto durava ormai da 4 anni, dal 1914 al 1918, e si presentava come una logorante guerra di posizione in cui gli eserciti contrapposti mantenevano i loro fronti, stabilizzati ormai da anni, ben saldi nei loro trinceramenti.
     Gli Austro-Ungarici ed i Tedeschi nell'assalto alle trincee nemiche avevano già sperimentato, dal secondo anno di guerra, suscitando solo in un primo momento indignazione e rabbia (dei nemici), sia i lanciafiamme che i gas tossici che, con una netta superiorità dell'artiglieria potevano dare un grande vantaggio bellico tanto che in molti ritenevano che potessero modificare ancora le sorti del conflitto.
     Nell'aprile del 1917 entrarono però in guerra anche gli Stati Uniti d'America che fecero confluire i loro soldati in Francia.
     Furono proprio i vertici militari e politici statunitensi che, volendo terminare il conflitto al più presto, fecero produrre e sperimentare nuove armi biologiche e tra cui ebbe notevole risultanza per estrema tossicità letale, un nuovo gas prodotto da una miscela di elementi del virus del tifo e dell'influenza aviaria.
     Quest'arma biologica, appena creata, sembra però che, per motivi mai chiariti, fosse sfuggita di mano agli stessi inventori americani, infettando i soldati di Camp Riley KS del Massachussetts.
     In brevissimo tempo, ma non si hanno notizie certe e provate, in America perirono 675.000 persone (i dati non sono mai stati rivelati e, anche ai nostri giorni, non si ha nessuna documentazione a proposito).
     Furono dunque le truppe americane, secondo le più recenti relazioni, a diffondere sul continente europeo (anche casualmente) il nuovo agente patogeno, essendo stati in parte anche loro direttamente contaminati tramite un vaccino che era stato loro inoculato.
     Il gas però sembra che, in alcune condizioni belliche e climatiche favorevoli, fosse anche stato intenzionalmente liberato nell'aria a ridosso delle linee e dei campi di battaglia avversari.
     La storiografia tedesca, subito dopo la sconfitta e la disfatta con la firma della resa senza condizioni, negli anni immediatamente successivi, attribuì proprio all'efficacia della "spagnola" la causa della sconfitta finale.
     Di questo, logicamente, non si ha riscontro nella "storia" scritta da altri, anche se va riconosciuto che tra i soldati austriaci l'incidenza della mortalità fu quasi tripla rispetto a quella tra i soldati italiani: nell'Austria Ungheria, tra militari e civili, si registrarono due milioni e mezzo di morti.
     Un primo picco dell'epidemia, che si diffuse ad una velocità impressionante, si ebbe in giugno e luglio (del 1918) ma "l'ondata" più micidiale colpì in pratica tutto il mondo e raggiunse il suo culmine in ottobre e novembre... per placarsi poi nella primavera del 1919.
     Nelle prime due edizioni di questo libro (anno 1999-2000) avevo scritto che erano in corso delle ricerche che si erano rese possibili dopo che scienziati militari statunitensi (nel 1996-97) avevano scoperto e dissotterrato, nel gelido terreno dell'Islanda dei cadaveri di vittime della spagnola, ben conservati nel terreno ghiacciato. Successivamente erano stati prelevati dai polmoni, di questi corpi parti del patrimonio genetico del virus.
     Quindi il DNA dell'agente patogeno era stato ricostruito per intero e poi sperimentato sui cavie animali nei laboratori del Center for Disease Control di Atlanta… risultando altamente letale.
     L'agente rigenerato della "spagnola" si è così "nuovamente" aggiunto a tutti quegli altri (sembra che siano alcune migliaia negli arsenali di diverse nazioni) che costituiscono le armi biologiche e batteriologiche per attacchi di distruzione di massa.
     Se tutta la guerra, la Grande Guerra, in cinque anni di conflitto, aveva fatto circa 9 milioni di morti nella sola Europa, questa epidemia ne fece, in pochi mesi, ben più di 20 milioni: un decimo della popolazione del continente che era stimata, all'epoca, in circa 280 milioni di persone.
     Alcuni storici sostengono che i morti, in tutto il mondo, furono all'incirca 40 milioni (altri sostengono addirittura che i decessi furono ben più di 75 milioni). Questi dati non potranno mai essere o confutati o ufficializzati poiché in molte regioni del pianeta in cui è stata segnalata la presenza di morti per questa pandemia, specie nei Balcani, in Asia e in Medio Oriente non vi erano, in quegli anni e in quelli successivi, statistiche o censimenti che potessero essere da riferimento sulla consistenza della popolazione e tanto meno di quella colpita dal morbo letale.
     Restando però alle cifre ufficiali comunque il numero delle vittime fu dichiarato, a infezione scomparsa totalmente, nel 1920, in circa 350.000 per l'Italia (ma altri dati parlano di 600.000), 166.000 per la Francia (350.000), 225.000 in Germania (400.000), 228.900 in Inghilterra, in Austria-Ungheria 1.000.000 (2.500.000).
     Come si nota chiaramente fu l'Italia, dopo l'Austria (anche nei dati ufficiali) ad essere colpita nel modo più grave sia in termini di conteggio assoluto sia in rapporto percentualmente rispetto alla popolazione stimata.
     Fuori dall'Europa si contarono 675.000 morti negli USA e in India l'impressionante numero di 16.000.000 (altre stime, di fonte inglese, accennano a 22.000.000).
     Di altri stati asiatici e africani non si sono mai avuti dati attendibili ma in nazioni altamente popolose (Cina, Indonesia ecc) il conto dei decessi era davvero impossibile, ma ritenuto molto elevato.
     Il 25% delle vittime erano sotto i 15 anni e il 45% fra i 15 e i 35: da queste statistiche si evidenzia come la malattia colpì generalmente i più giovani.
     Anche in Valle Camonica la "spagnola" colpì ovunque, i morti erano talmente tanti che i sacerdoti non celebravano più i lunghi riti funebri della tradizione cattolica, ma si limitavano ad una breve benedizione e ad una altrettanto breve e rapida sepoltura.
     In poco tempo anche i cimiteri di molti paesi non riuscirono più a contenere tutte le salme e allora si procedette allo scavo di fosse comuni di emergenza anche al di fuori dei recinti funerari.
     Alcune di queste "Büse dè i mòrç" (buche dei morti, così erano chiamate in molti borghi) erano anche di vaste dimensioni, per contenere contemporaneamente più corpi per delle inumazioni collettive, molte volte di interi nuclei familiari.
     La scienza medica e la ricerca scientifica di allora, anche le più avanzate, erano completamente impotenti di fronte a questa virulenta epidemia.
     I più illuminati e illustri scienziati dell'epoca non sapevano che cosa fare e come agire, tant'è che, a chi era colpito dal male, venivano prescritte (naturalmente senza alcun risultato positivo) una profonda spennellata di petrolio in gola e una abbondante bevuta di grappa o altri super alcolici.
     Nella storia non si era verificata una simile violenta epidemia fin dai tempi della famosa peste (di manzoniana memoria) del 1630-31 che aveva ridotto la popolazione Italiana di un quarto con almeno un milione di morti sui quattro milioni di abitanti di allora.
     Come la storia dell'umanità (mettendoci di mezzo anche i soliti immancabili miracoli !) ci ha molte volte tramandato, tanto rapidamente come era comparsa, la terribile malattia, si arrestò e in brevissimo tempo scomparve completamente.
     I sentimenti più diffusi tra la popolazione in quei tristi 1918 e 1919 erano la costernazione e la paura, ma più forte sopra tutto era la rassegnazione a ciò che era ritenuto inevitabile e (tra i più diseredati, ignoranti e poveri) forse anche dimostrazione della solita "ira divina" per i peccati commessi dall'umanità in guerra.
     Intere famiglie furono spazzate via, interi paesi si erano spopolati e la nostra valle (ma non solo la Valle Camonica, anche altre zone erano nelle stesse condizioni di semplice sopravvivenza) era ridotta in condizioni di profonda prostrazione economica e sociale (si soffriva la fame e la miseria era diffusa e presente ovunque).
     Alla endemica povertà di questa terra purtroppo non fecero neppure da contrappunto quei fattori positivi necessari alla ripresa sociale, civile ed economica che si affacciavano invece altrove.
     Ai sopravvissuti (alla guerra e all'epidemia) si parò davanti un periodo di grandi sacrifici e di profondi stenti dovuti alle enormi difficoltà politiche e finanziarie che una dispendiosissima e lunghissima guerra avevano ulteriormente acuito in uno stato fondamentalmente già molto povero com'era l'Italia di inizio IXX secolo.
     Le aspettative per un futuro migliore potevano e dovevano essere molte e diffuse, specie tra intellettuali e sognatori, ma nessuna risposta positiva per uno sviluppo generale poteva, in quei momenti difficili, essere data da una lunga serie di "governi di coalizione" deboli e non sorretti da maggioranze parlamentari stabili.
     In poco più di due anni si succedettero alla guida di un'Italia travagliata da tanti e insormontabili problemi, i governi dei primi ministri Orlando (*) , Nitti (*), Giolitti (*) , Bonomi (*) e Facta (*).
ORLANDO VITTORIO EMANUELE
(Palermo 1860 - Roma 1952)

Fondatore della giuspubblicistica italiana, che impose seguendo i dettami della scienza giuridica tedesca e apportò contributi essenziali nelle sue numerose monografie e nei fondamentali Principi di diritto costituzionale (1889) e Principi di diritto amministrativo (1890). Creò nel 1890, a Palermo, l'Archivio di diritto, trasformato in Rivista di diritto pubblico, e resse dal 1901 al 1931 la cattedra di diritto costituzionale di Roma. Senatore del regno e in seguito della repubblica, fu presidente del consiglio all'epoca della resistenza sul fronte del Piave fino alla vittoria. Fu il massimo rappresentante dell'Italia alla conferenza della pace, e membro della commissione per l'elaborazione del patto della Società delle Nazioni. Nelle elezioni del 1824 aderì alla lista fascista e non partecipò alla secessione aventiniana. Solo in un secondo momento prese le distanze dal regime fascista, e nel 1943 collaborò con Vittorio Emanuele III nell'allontanamento di Mussolini
NITTI FRANCESCO SAVERIO
(Melfi 1868 - Roma 1953)

Professore di scienza delle finanze, deputato (1904) liberale di Sinistra, fu più volte ministro con Orlando e Giolitti. Presidente del consiglio (1919-20), affrontò con moderazione la questione fiumana e fece approvare l'introduzione del sistema elettorale proporzionale. Esule in Svizzera e in Francia durante il periodo fascita, tornato in Italia nel 1945 formò con Orlando, Croce e Bonomi l'unione democratica nazionale per le elezioni alla costituente. Nelle elezioni del 1948 fu a capo del blocco nazionale (liberali, qualunquisti, ecc.); divenuto senatore di diritto nello stesso anno, nelle successive elezioni amministrative di Roma capeggiò il fronte della Sinistra. Tra le sue opere: L'Europa senza pace (1921), La decadenza dell'Europa (1922).
GIOLITTI GIOVANNI
(Mondovì 1841 - Cavour 1928)

Dopo una brillante carriera nell'amministrazione pubblica, entrò in parlamento nel 1882 come deputato del collegio di Cuneo. Ministro del tesoro con Crispi (1889-90), quindi presidente del consiglio (1892-93), fu coinvolto nello scandalo della Banca Romana e costretto a dimettersi. Tornò al potere come ministro degli interni nel governo presieduto del bresciano Zanardelli (1901-03), contribuendo a rendere più decisa la svolta con cui venne posto termine all'involuzione reazionaria che s'era determinata in Italia verso la fine del secolo. Incaricato di formare il governo dopo la caduta dello Zanardelli, resse le sorti del paese, salvo brevi parentesi, fino alla vigilia della prima guerra mondiale, attraverso un decennio (che fu detto 'giolittiano') nel quale le istituzioni liberali del giovane stato italiano vennero in gran parte adattate alle esigenze di un paese che subiva un rapido processo di modernizzazione nelle sue strutture economiche e sociali. La profonda fede liberale del Giolitti, accompagnata dal notevole possesso di grandi doti di duttilità consentì di operare senza scosse il necessario allargamento delle basi del mondo politico in direzione dei socialisti e dei cattolici e, in genere, delle forze che erano state ai margini del processo unitario risorgimentale. Al regime degli stati d'assedio, il Giolitti contrappose la sua fiducia nella pratica dell'istituto parlamentare, anche se il Giolitti si mostrò estremamente spregiudicato nel maneggiare gli strumenti che aveva a disposizione in materia di elezioni e di favori personali da concedere a candidati e a eletti della maggioranza governativa. Il suo ritorno al potere nel 1920, in una situazione che la guerra aveva radicalmente mutato, non valse ad arrestare la crisi del regime liberale in Italia. Di fronte al fascismo vittorioso, mantenne sempre un atteggiamento di dignitoso riserbo, se non di aperta opposizione. Lasciò importanti Memorie (1922).
BONOMI IVANOE
(Mantova 1873 - Roma 1951)

Esponente di spicco dell'ala più moderata del partito socialista, venne espulso al congresso di Reggio Emilia (1911) a causa del suo voto favorevole all'impresa di Libia, e con Bissolati fondò il partito socialista riformista. Durante la prima guerra mondiale fu volontario. Fu più volte ministro e, nel 1921-22, presidente del consiglio ma non riuscì, a controllare la grave situazione prodotta nel Parlamento e nel paese dell'avanzata fascista. Sconfitto alle elezioni del 1919 e del 1924, si ritirò temporaneamente dalla vita politica, per farvi ritorno durante la lotta clandestina antifascista (1942) e divenire quindi il primo presidente del consiglio dell'Italia liberata (1944-45). Nominato senatore a vita, fu eletto presidente del senato nel 1948). Scrisse numerose opere di storia e politica, tra cui: Dal socialismo al fascismo (1925), Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia (1929), Diario di un anno (1947), La politica italiana dopo Vittorio Veneto (post.1953).
FACTA LUIGI
(Pinerolo 1861 - 1930)

Fedele seguace di Giolitti, fece parte di vari ministeri, prima come sottosegretario (1903) poi come ministro delle finanze (1911-14). Dopo la prima guerra mondiale (a cui si oppose) fu ancora alle finanze nel 1921, proprio nel momento di maggior crisi politica e parlamentare conseguente alla caduta dell'ultimo ministero Giolitti, ebbe l'incarico di formare il nuovo governo. Espressione diretta delle debolezze e delle incertezze della maggior parte della classe politica italiana di fronte al fascismo, non seppe opporsi alla marcia su Roma. Fu eletto senatore a vita nel 1924
STURZO LUIGI
(Caltagirone 1871 - Roma 1959)


Sociologo e uomo politico. Nominato sacerdote nel 1894, svolse attività politica locale, fondando e dirigendo il settimanale democratico-cristiano La Croce di Costantino e organizzando associazioni cattoliche, venendo eletto (1905) sindaco di Caltagirone. Da 1912 al 1924 fu vice presidente dell'associazione dei Comuni Italiani, segretario generale della giunta di Azione Cattolica dal 1915 al 1917, nel 1919 fondò il Partito popolare italiano, primo partito politico di cattolici, del quale fu il segretario fino al 1923. In quell'anno, dopo aver tentato una certa resistenza politica al fascismo, fu costretto, anche da pressioni delle gerarchie ecclesiastiche, a dimettersi, e l'anno seguente si recò all'estero, soggiornando a lungo a Londra e dal 1940 a New York. Tornò in Italia nel 1946, riprendendo l'attività giornalistica con alcune campagne contro l'intervento statale in economia. Continuatore della sociologia cattolica dell'Ottocento, aggiornata però dal contatto con alcune correnti del pensiero moderno e da un forte senso dell'autonomia dell'azione politica, fu autore di numerose opere, tra cui: Saggio di sociologia (1935), Chiesa e Stato (1937), L'Italia e il nuovo ordine internazionale (1944), La mia battaglia da New York (1949).
MUSSOLINI BENITO
(Dovia di Predappio 1883- Giulino di Mezzegra 1945).


Cresciuto in un ambiente familiare tradizionalmente anarchico-socialista, fece, in Svizzera, dove era riparato per evitare il servizio di leva le sue prime esperienze politiche, come propagandista anticlericale e anarchico. Tornato in patria e amnistiato, nel 1909 diresse la camera del lavoro e un giornale socialista a Trento, distinguendosi per un violento anticlericalismo. Espulso da quella città, diresse la federazione socialista di Forlì. Al congresso socialista di Reggio Emilia (1912), con la sua oratoria infiammata poté contribuire in larga misura al successo della corrente massimalista e all'espulsione dei riformisti di Bissolati. Divenuto direttore dell'Avanti!, dopo essere stato per qualche tempo accesamente neutralista (1914), operò un improvviso voltafaccia sostenendo, con altrettanta violenza verbale, l'intervento in guerra contro l'Austria. Espulso dal partito, fondò il Popolo d'Italia e, arruolatosi volontario, andò al fronte, dove venne ferito durante un'esercitazione. Durante il tumultuoso dopoguerra, il 23 marzo 1919 fondò a Milano il movimento dei 'fasci', riuscendo a raccogliere attorno a sé vari consensi grazie alle sue dichiarazioni programmatiche e ai suoi successivi atteggiamenti. Ma le velleità rivoluzionarie cedettero di fronte al desiderio di erigersi a 'campione dell'ordine', e Mussolini, finanziato ormai da industriali e da potenti agrari, iniziò una campagna di aperte violenze contro le organizzazioni della Sinistra. Da questo punto la storia di Mussolini si identifica con la storia d'Italia e del cammino verso la catastrofe della seconda guerra mondiale. Divenuto presidente del consiglio dopo la marcia su Roma (ottobre del 1922), tra il 1922 e il 1925 riuscì, nonostante la temporanea crisi politica dovuta al delitto Matteotti, a ridurre al silenzio le opposizioni e a instaurare una dittatura personale, consolidando in seguito il nuovo regime con l'introduzione del corporativismo (1927) e con la conciliazione con la Chiesa (1929). Desideroso, in politica estera, di rinnovare l'immagine della potenza e del prestigio antichi della nazione, si spinse alla conquista dell'Etiopia (1935-36), all'aiuto diretto a Franco nella guerra di Spagna, fino a sottoscrivere con Hitler il "patto d'acciaio" (1939) e a intervenire (con il paese completamente impreparato) nella seconda guerra mondiale. Messo in minoranza nella seduta del Gran Consiglio fascista del 25 luglio 1943 e imprigionato dopo una visita al Re, venne poi liberato e condotto in Germania, da dove fu obbligato a proclamare la Repubblica Sociale Italiana, con sede a Salò. Alla fine delle ostilità fu scoperto mentre, travestito da sergente tedesco, cercava di fuggire in Svizzera. Nei pressi di Dongo fu fucilato dai partigiani, insieme con alcuni gerarchi e con la fedele Claretta Petacci (sua amante) che lo accompagnavano nella fuga.
D'ANNUNZIO GABRIELE
(Pescara 1863 - Gardone 1938).


La sua fortunata opera di poeta, drammaturgo, letterato, dominata dai motivi più tipici del decadentismo europeo, da una sensibilità accesa, dal virtuosismo formale, valse a diffondere in Italia buona parte dei miti retorici ed estetizzanti dei quali si alimentò poi il nazionalismo. Al nazionalismo e poi al fascismo egli contribuì pure con la sua burrascosa attività politica, confusamente volontaristica. Deputato di estrema Destra nel 1897, passò poi clamorosamente all'estrema Sinistra, ma non venne rieletto nelle elezioni successive. Dopo essere vissuto per qualche tempo in Francia, tornò in Italia nel 1914 per fare propaganda in favore dell'intervento e quindi arruolarsi come volontario e il suo prestigio e il suo fascino personale gli permisero di combattere come un irregolare: volò su Vienna, Trento e Trieste, partecipò alla beffa di Buccari. Nel 1919 a capo di 287 legionari compì quell'impresa di Fiume che parve ad alcuni come una sorta di prova generale della marcia su Roma, rimanendo poi, grazie alla debolezza e spesso alla connivenza delle autorità civili e militari, per oltre un anno a capo della Reggenza del Carnaro. Abbandonò la città non appena Giolitti ordinò alle truppe di aprire il fuoco sui legionari. Visse i suoi ultimi anni, avvolto in un fasto principesco, nel Vittoriale degli Italiani, sulle rive del lago di Garda, arredato a guisa di museo personale suo e delle sue imprese

     La disoccupazione toccò livelli altissimi, le proteste di piazza e gli scioperi acuirono ulteriormente le tensioni sociali che raggiunsero il punto massimo con l'occupazione di numerose fabbriche da parte degli operai nei mesi di agosto, settembre, ottobre e novembre del 1920.
     I socialisti divennero il partito meglio organizzato e più capillarmente diffuso su tutto il territorio nazionale e, alle elezioni amministrative conquistarono gli importanti comuni di Milano e Bologna.
     Le successive elezioni politiche, che furono tenute per la prima volta in Italia col sistema proporzionale, videro un chiaro successo (pur parziale) delle sinistre con lo stesso PSI, ma anche una buona affermazione dell'area cattolica con il PPI (Partito Popolare Italiano) che era stato fondato l'anno prima (1919) da don Sturzo (*).
     Lo stesso anno Mussolini (*) aveva fondato, a Milano, i Fasci Italiani di Combattimento.
     Alle elezioni politiche il movimento fascista subì una cocente sconfitta raccogliendo poco meno di 5000 voti e quasi tutti nell'area milanese.
     Mussolini però, malgrado questo tonfo, non scomparve dalla vita politica e grazie all'aperto sostegno portato all'impresa di D'Annunzio (*) a Fiume e con enunciazioni di concetti farciti di parole d'ordine nazionalistiche e di facile presa soprattutto sugli ex combattenti (in gran parte, dalla fine del conflitto, disoccupati o sbandati), si pose all'attenzione dell'opinione pubblica.
     Nel 1921 al congresso di Livorno i socialisti, i cui vertici erano ben consci di restare confinati ai margini del sistema politico, malgrado la loro buona affermazione alle elezioni, oscillando tra i poli opposti del solito massimalismo rivoluzionario e del solito riformismo, fecero quello che faranno diverse volte anche negli anni successivi… si divisero e dalla loro scissione si giunse alla fondazione del Partito Comunista d'Italia.
     Il fascismo rivoluzionario delle origini intanto si era trasformato in una formazione politica che metteva al centro del suo programma l'impegno di ripristinare quell'"ordine sociale", turbato dal sovversivismo di una sinistra che monopolizzava le piazze e creava una vasto disagio, specie nei ceti medi.
     Fu in quegli anni, dal 1920 in poi, che si diffuse rapidamente lo squadrismo fascista, prima in valle Padana, con l'appoggio dei potenti e ricchi agrari che erano stati grandemente danneggiati dagli scioperi dei braccianti "rossi", poi nelle altre regioni.
     Gli scontri tra Fascisti da una parte e Socialisti e Comunisti dall'altra, non furono solo verbali e le violenze antisocialiste e antisindacali divennero una consuetudine anche nei piccoli centri periferici e non solo nelle grandi città e nelle campagne.
     Nel 1921 Mussolini trasformò i Fasci di Combattimento nel Partito Nazionale Fascista (PNF).
     In gran parte d'Italia le fasciste "centrali di combattimento", che intendevano sostituire le forze di polizia ritenute ormai troppo deboli ed indulgenti, divennero una reale, ben organizzata (come e forse meglio di quelle di sinistra), incombente e forte presenza.
     Anche in Valle Camonica sia i socialisti che i fascisti avevano vaste schiere di reciproci sostenitori e molte volte vi furono scontri violenti che purtroppo sfociarono in diversi episodi in cui si contarono diversi feriti e anche dei morti.
     Sostenuti, per verità storica, anche da un certo favore popolare, si registrarono "avvenimenti di cronaca" in cui i fascisti, propugnatori dell'ordine, cercavano lo "scontro fisico" con gli avversari politici.
     Uno dei primi episodi che fece clamore, si registrò nel 1920, a Losine dove un rumoroso ed esaltato gruppo di giovani fascisti, con la camicia nera, entrò in chiesa e si sdraiò sui gradini di un altare mentre il parroco predicava. Il sacerdote venne interrotto più volte con pesanti e reiterati insulti. Finita la funzione religiosa, gli stessi squadristi, all'uscita del tempio, si misero a colpire con dei bastoni i giovani cattolici che erano stati presenti alla messa.
    

20 gennaio 1921
Pisogne: la squadra d'azione
chiamata "La Beffarda"
Il 20 gennaio 1921 a Pisogne venne costituita una squadra d'azione denominata "Beffarda" che già dalla sua fondazione contava ben 50 iscritti che si resero propugnatori di diversi atti di violenza, come nel mese di aprile, quando, da questi squadristi, venne preso d'assalto il Municipio: il sindaco fu malmenato e alcuni amministratori, che erano intervenuti in difesa del primo cittadino, rimasero contusi e feriti. A Lovere, sempre nel 1921 e nel 1922, avvennero vari e ripetuti scontri fra alcuni "socialisti" del paese e delle squadre d'azione che provenivano dalla confinante provincia di Brescia. Durante una di queste "spedizioni" si verificò un grave e curioso episodio: dopo aver bevuto abbondantemente in alcune osterie del paese lacustre, durante il viaggio di ritorno in città, rimase ucciso il fascista Faustino Lunardini: dalle indagini di polizia risultò che era stato colpito dai suoi stessi compagni, mentre, esaltati e sbronzi, sparavano all'impazzata nell'attraversare i paesi del Sebino: fu esaltato come un eroe e ricordato come "caduto nel compiere il proprio dovere di fascista". Le tensioni politiche e sociali raggiunsero alti livelli nel 1922 e non si sopirono l'anno successivo, anzi: molti furono gli episodi di violenze e pestaggi che principalmente le squadre fasciste misero in opera e che esaltavano la loro volontà di imporsi ad ogni costo agli avversari politici (molti socialisti non stavano però certo a subire senza reagire e anche loro organizzavano spedizioni di ritorsione). Il fatto più grave accadde all'inizio del 1923: la sera dell'Epifania a Piancamuno ci fu uno scontro furioso fra una numerosa famiglia di socialisti ed un gruppo di fascisti di Pisogne: vi furono scambi di fendenti di coltello, stoccate di tridenti e di falci e numerosi colpi di pistola. I fascisti si erano recati in "spedizione punitiva" nella abitazione di questo "clan familiare" di noti simpatizzanti socialisti per "dare una severa lezione a quei rossi": alla fine del breve ma violentissimo scontro ben dieci componenti della famiglia, furono colpiti selvaggiamente riportando anche gravissime ferite tanto che purtroppo tre di questi, fra cui due donne, morirono poco dopo. Il 10 giugno tre fascisti di ritorno da una festa a Lovere, incontrando sulla strada provinciale alcuni operai del paese, che un loro concittadino fascista aveva accusato di aver cantato "bandiera rossa": con la pistola in pugno incominciarono ad insultarli e, visto che questi, disarmati, si erano dati a precipitosa fuga si misero ad inseguirli minacciandoli di morte. L'essere scappati però non aveva posto i giovani operai fuori pericolo, anzi, la vicenda si concluse tragicamente poiché quando vennero raggiunti dai fascisti, avendo accennato ad una disperata difesa, furono raggiunti ripetutamente da numerosi colpi di pistola. Un colpo raggiunse un ragazzo di ventisei anni, Battista Cristini, che morì poco dopo. Anche gli altri compagni del Cristini furono fatti segno di altri colpi di pistola che fortunatamente andarono a vuoto ma quando vennero raggiunti e fermati, furono forsennatamente picchiati e un altro giovane restò ferito gravemente. A Bienno la lotta politica si fece molto pesante quando, contro il sindaco Faustino Morandini, vennero fatte circolare, dai fascisti locali, voci false e tendenziose con accuse di ruberie e, col pretesto di dargli una lezione, fu preso d'assalto il Municipio: gli impiegati vennero con la forza buttati fuori dagli uffici e l'amministrazione comunale dichiarata immediatamente decaduta e sciolta. Sia dalla Prefettura di Brescia che dal Ministero dell'Interno, malgrado le comunicazioni ufficiali fatte dai Carabinieri, che avevano steso un preciso rapporto di come si erano svolti i fatti, non vennero prese misure di controllo o di prevenzione e non vi furono ulteriori indagini. Ma il 1923 verrà a lungo ricordato in bassa Valle Camonica per una immane sciagura che causò oltre che ingenti danni anche più di 350 morti.
1° dicembre 1923:
il disastro del Gleno
Erano le 7,30 del 1° dicembre quando la nuova diga, non ancora del tutto terminata, posta sul torrente Gleno, sopra l'abitato di Bueggio, in Val di Scalve, si squarciò sotto la spinta della massa d'acqua che era stata imbrigliata da questo sbarramento che, come confermarono poi le perizie e le indagini successive, in molti sapevano essere stato progettato in tempi rapidissimi e costruito in modo "inadeguato e criminale". Come è visibile perfettamente anche ai nostri giorni, dai ruderi che sono a ancora a testimonianza di quel fatto, l'intero lato sinistro della diga cedette di schianto e un'enorme quantità di acqua e di detriti si riversarono a valle con un'immane forza dirompente. La centralina di Povo venne spazzata via e subito dopo la grande massa liquida, ingrossata da altri detriti, travolse Valbona, il ponte del Dezzo e il santuario della Madonna di Colere. All'imbuto naturale che la Valle di Scalve compie sotto l'abitato di Azzone il fronte della massa d'acqua, formando una enorme onda si incanalò con estrema violenza e inaudita rapidità nello stretto letto del torrente Dezzo e precipitò verso la Valle Camonica ingrossandosi e aumentando ulteriormente di volume. Il primo paese camuno che venne colpito fu Angolo Terme. Anche nei pressi e poco a nord di questo antico centro abitato, la conformazione della valle, che svolta quasi ad angolo retto (da questo il nome Angolo), creò un momentaneo ostacolo che si trasformò in uno sbarramento naturale che produsse una enorme ondata di ritorno con un effetto d'urto spaventoso. L'acqua, il fango e una gigantesca massa di detriti si riversarono in pochi istanti contro i ponti del fondovalle, che a loro volta, dapprima resistettero, rallentandone la corsa ma, schiacciati dal peso di quanto pressava sulle loro sponde, cedettero di schianto aumentarono proporzionalmente la potenza devastatrice della marea ormai divenuta una vera e propria montagna in movimento. A Gorzone, poco a nord ovest dell'abitato di Boario Terme, il letto del fiume, ingombro di tronchi "strappati" alle numerose segherie della zona dal primo "fronte" di acqua, formò per alcuni istanti un altro debole sbarramento. Si venne così a formare una ulteriore provvisoria diga che, cedendo poco dopo, riversò, con tutta la sua devastante potenza, una impressionante quantità di fango, detriti, alberi e ogni tipo di rifiuti raccolti a monte: tutto questo piombò sull'abitato di Darfino (oggi chiamato Corna di Darfo) sommergendolo completamente e spazzandolo via. Il fiume Oglio, alla confluenza con il Dezzo, venne ributtato indietro e Darfino in pochi istanti scomparve. Le case vennero rase al suolo, i cortili e le strade furono invasi da cadaveri, carogne di animali, tronchi, massi, mobili, melma, masserizie e rifiuti di ogni tipo che erano stati trasportati a valle. Vennero distrutti o gravemente danneggiati, lungo il percorso della violentissima ondata, interi boschi, prati, terreni coltivati ma anche numerosi fabbricati, cascine con stalle in cui rimasero uccisi molti capi di bestiame. Le segherie, poste a fianco del torrente Dezzo, con i grandi depositi di legname, i vari mulini, le officine con i magazzini di carbone e di ferro, le strade: tutto fu spazzato via, travolto e distrutto in pochi istanti: tutto finì in un grande boato e nel successivo spettrale silenzio di morte. Quando sul posto arrivarono i primi soccorritori si presentò loro una visione da inferno dantesco: dove prima sorgeva Darfino, una delle frazioni più operose del comune di Darfo con le sue case e industrie, c'era solo una grande landa desolata di fango da cui emergevano pochi muri spettrali, centinaia di carcasse di animali, corpi di uomini, donne e bambini, quasi tutti completamente nudi, svestiti dalla forza d'urto dello spostamento d'aria. Le vittime, come detto, furono più di 350 e parecchi corpi vennero recuperati solo dopo molti giorni, stretti e abbracciati dalla mortale morsa uniforme della mota solidificata. Sul posto della tragedia si recarono le massime autorità militari e civili e anche il re Vittorio Emanuele III giunse in Valle Camonica, a portare la sua solidarietà alle comunità colpite, prima e unica volta di un Sovrano di Casa Savoia nella nostra zona. Le cronache che raccontarono di quella tragedia, oltre al lungo elenco di chi, in un istante, aveva perso la vita, riportarono un episodio che fece il giro di tutte le redazioni dei giornali: alcuni militari che erano stati comandati al recupero dei corpi delle vittime e che avevano ridisceso, per alcuni chilometri il corso dell'Oglio, fino al lago d'Iseo, in località Ponte Barcotto, nei pressi di Piano (di Costa Volpino), presso la foce del fiume, trovarono un bimbo di pochi mesi che era adagiato in una culla di legno che galleggiava sulle acque limacciose. I militari trassero in salvo il piccolino e lo soprannominarono: "Mosè" (che, come tutti sanno, vuol dire "salvato dalle acque") e con questo nome venne conosciuto in tutta Italia. In quel triste fine anno, tutta la Valle Camonica, si strinse attorno ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime e per qualche giorno lo scontro politico rimase come sospeso. Passato però, in breve tempo, il momento di grande emozione, resi forti della "voluta" impotenza delle forze dell'ordine, i Fascisti della Valle, divenuti, anche a livello nazionale, protagonisti principali della vita politica, con la violenza e le minacce fecero in modo che le varie amministrazioni comunali decadessero e che gli avversari venissero, sotto molti aspetti, emarginati dalla vita politica. Anche nei più piccoli centri e paesi, in modo capillare, vennero fondate da attivisti sempre più numerosi ed entusiasti, in molti casi realmente conviti di creare una nuova società, delle sedi del Fascio e molti giovani vennero sinceramente attratti (e fortemente condizionati) da una propaganda che esaltava la figura e i meriti del Duce del Fascismo: Benito Mussolini. I fatti di violenza divennero quotidiani e il 1924 fu anche l'anno in cui, dopo il rapimento e l'assassinio a Roma del deputato socialista Giacomo Matteotti, Mussolini, pur in profonda crisi istituzionale, riuscì a rendere
MATTEOTTI GIACOMO
(Fratta Polesine 1885 - Roma 1924).


Deputato socialista dal 1919 e segretario del partito nel 1922, si dedicò alla difesa dei contadini del Polesine. Il 30 maggio 1924, in un discorso alla camera, denunciò le violenze e i brogli commessi dai fascisti per vincere le elezioni del 6 aprile. Dieci giorni dopo venne rapito da alcuni sicari, pugnalato e abbandonato in aperta campagna dove il suo corpo venne rinvenuto due mesi dopo.
addirittura più solido e stabile il suo potere, non trovando nessuna vera opposizione politica decisa, preparata e capace di sfruttare a proprio favore la situazione delicata e pesante che si era venuta a creare. In Valle Camonica, sempre nello stesso anno (1924) a Pellalepre di Darfo, tre uomini, che si erano rifiutati di salutare con la mano tesa nel classico saluto romano, alcuni fascisti, furono bastonati e abbandonati per strada: dovettero essere condotti in ospedale per essere medicati. A Niardo e, qualche giorno dopo, a Breno, due squadre di Fascisti, anche per dimostrare la loro forza e ormai certi della loro impunità, in un pesante gioco di violenza gratuita, giunsero a far inginocchiare e a prostrarsi per terra, sulla pubblica via, di fronte a loro, alcuni cittadini di nota fede socialista che transitavano in quel momento... chi osava reagire era costretto a subire grossolane offese personali e penosi e pesanti maltrattamenti fisici. A Gianico avvenne un altro fatto gravissimo: scoppiata una lite per motivi politici questa si trasformò in una mischia selvaggia in cui due lavoratori socialisti vennero uccisi e altri feriti gravemente, vi furono dei feriti, uno in modo serio, anche tra i fascisti, che pur vantandosi di aver scatenato loro l'aggressione, e di avere impartito una lezione… ancora una volta rimasero completamente impuniti. Nell'agosto (del 1924) al passo del Tonale venne inaugurato il grande Ossario in ricordo dei caduti di tutti gli eserciti, nella "Grande Guerra Bianca" che si era combattuta sulle montagne camune che immobili dominavano (e dominano tuttora) quegli antichi campi di battaglia.

Sfilata fascista
per le vie di Breno
Era stata organizzata una solenne cerimonia che aveva fatto salire al passo molta gente e aveva spinto moltissimi ex combattenti e reduci a ritrovarsi in quei luoghi dove un'intera generazione di giovani, solo pochi anni prima, aveva perso la vita. Un fatto spiacevole però turbò in parte quella solenne commemorazione poiché alla cerimonia ufficiale alcune squadre di fascisti, provenienti dalla federazione di Brescia, impedirono al pubblico di avvicinarsi al luogo dove si svolgeva sia la funzione religiosa che l'inaugurazione vera e propria, trasformando questa celebrazione, che non avrebbe dovuto avere nessun colore politico (come i morti che venivano ricordati) in una cerimonia solo fascista e, usando le maniere forti, fecero in modo che due noti sacerdoti, noti per le loro "simpatie" verso le sinistre e i problemi sociali: don Stefano Regazzoli e don Girolamo Lanzetti, non potessero essere presenti tra il folto gruppo delle autorità civili e religiose: i due vicari furono entrambi allontanati con l'accusa, ridicola, che la loro presenza poteva provocare disordini. Le aggressioni e i pestaggi erano divenuti sempre più frequenti e molte volte gli squadristi agivano anche solo su generiche (o circostanziate) delazioni (sempre numerose) e venivano organizzate "azioni punitive" al solo scopo intimidatorio per dimostrare forza o disprezzo per chi non apparteneva al partito fascista o non dimostrava fervore verso il regime e il suo dittatore. Nel 1925 il Duce del Fascismo, in pratica senza nessuna opposizione, avviò una decisa azione personale di stampo autoritario iniziando a promuovere quel "culto della personalità del capo" che lo seguì per i quasi vent'anni successivi e che venne diffuso in maniera capillare in tutta Italia. Nei mesi di novembre e dicembre (1925), fece approvare direttamente dal "suo" Governo e non dal Parlamento (come invece la prassi e la costituzione albertina prevedevano, ponendo al centro della vita legislativa il parlamento e non il Governo che invece doveva avere invece compiti esecutivi), una lunga serie di leggi repressive di numerose libertà individuali e collettive che vennero rafforzate, l'anno dopo, (novembre 1926) dalle leggi dette "fascistissime" con cui furono dichiarati decaduti tutti i parlamentari che polemicamente (e inutilmente) non entravano più in Palamento ma si erano radunati sull'Aventino in segno di protesta. " 1926: 4 febbraio: vengono soppressi i Consigli dei comuni con meno di cinquemila abitanti , sostituiti dai podestà. La disposizione sarà estesa il 3 settembre anche ai comuni maggiormente popolati. " 1926 3 aprile: vengono proibiti per legge scioperi e serrate. " 1926 15 aprile: il regio decreto n. 765 erige Boario ad Ente Autonomo di Cura, definitiva affermazione del centro termale avviato vent'anni prima (1906) con il primo edificio delle Terme recante la scritta "Acqua Igea". " 1928: 24 ottobre: il paese di Darfo è colpito da una alluvione che provoca gravi danni. Vennero sciolti tutti i partiti (escluso quello Fascista), furono abolite le libertà di riunione e di sciopero, fu reintrodotta la pena di morte anche al di fuori dell'ordinamento della legge militare, venne creato il "Tribunale Speciale per la difesa dello Stato" e fu organizzata, su esempio di quella tristemente nota dell'Unione Sovietica, un corpo speciale di polizia politica: l'OVRA. A Parigi alcuni fuoriusciti contrari e dichiaratamente ostili al regime di Mussolini, in quell'anno, diedero vita alla "Concentrazione Antifascista" che comunque non ebbe molto seguito se non tra alcuni intellettuali ed ex politici di sinistra e del mondo liberale che erano dovuti espatriare. Avendo in pratica pieni poteri Mussolini mise mano a molti e radicali cambiamenti nella struttura dello stato: una delle leggi più significative (oltre alle già citate) sul piano amministrativo e che toccava dunque anche i piccoli paesi, fu quella che stabiliva che i sindaci non dovevano più essere eletti direttamente e democraticamente dai cittadini ma dovevano essere sostituiti, nelle loro funzioni amministrative e rappresentative, dai "Podestà" che venivano nominati tra i fascisti di provata fedeltà al regime. Dopo circa 700 anni, in Valle Camonica, sparì dunque la figura del "sindaco" che era stata presente ininterrottamente, in tutti i paesi, dal 1200 in poi, sotto tutti i regimi che si erano succeduti, da Milano a Venezia, dall'Austria al Regno d'Italia. Il fascismo, pur lasciando formalmente in vigore lo Statuto Albertino del 1848 (a cui Casa Savoia mai avrebbe, volontariamente, rinunciato), lo svuotò in pratica di ogni significato e prerogativa privando il Parlamento di ogni funzione: Mussolini, Capo del Governo (che da allora sempre più spesso fu definito anche nei documenti ufficiali e ministeriali "Duce del Fascismo") rispondeva "formalmente" del suo operato solo al Re e il potere legislativo (come già accennato) fu, di norma, esercitato direttamente dal governo. Questa nuova forma di struttura dello "Stato Fascista" fu definitivamente approvata con una legge specifica la vigilia di Natale: il 24 dicembre 1925. Al di fuori di semplicistiche considerazioni di carattere politico e di parte, che purtroppo sono sempre presenti e pericolose (anche oggigiorno e lo saranno ancora molto a lungo nella memoria degli Italiani), e malgrado le strumentalizzazioni e la demagogia di basso profilo, sempre cieche e stupide e sempre in agguato, va ricordato che la società italiana fu controllata in ogni sua manifestazione e le forme di opposizione drasticamente e violentemente represse. Ma è altrettanto doveroso anche sottolineare che col passare del tempo e il consolidamento del Regime Fascista crebbero, in vasti strati della popolazione, anche i giudizi positivi, o addirittura entusiastici per Mussolini e per il suo operato. Molti Italiani (e anche noti personaggi della cultura e politica mondiale) anche all'estero, in quegli anni ammiravano la dittatura italiana e questo ampiamente diffuso e molte volte sincero consenso fu dovuto anche (e specialmente) ad un amplissimo, moderno ed efficace apparato di propaganda che, usando, in modo moderno ma anche spregiudicato, ogni mezzo di comunicazione, esaltava i pregi del fascismo (e ve ne furono) ma ne nascondeva le pecche (che furono altrettante… se non più numerose). L'11 febbraio 1929 fu una data estremamente importante per il regime: vi furono solenni festeggiamenti per la firma, con il Vaticano, dei Patti Lateranensi e molti cattolici, anche in Valle Camonica, fino ad allora restii a dichiararsi politicamente, da quel momento, entrarono nelle file dei militanti o simpatizzanti fascisti.
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Anni '30 - Lovere:
dimostrazione ginnica
in piazza del porto
L'ideologia fascista, che, come scritto prima, ebbe anche grandi estimatori all'estero, si consolidò in senso nazionalista, corporativista, ma anche ruralista (con una rivalutazione dei valori legati alla terra e alla campagna) e familista con i piani di espansione demografica, facendo presa specialmente sui giovani che venivano inquadrati in organizzazioni para-militari: dai "Figli della Lupa" ai "Balilla", ai "Giovani avanguardisti", alle "Piccole e giovani donne italiane", alle "Massaie rurali" ecc. Vi fu l'esaltazione, in molti casi sincera e convinta, della novità dell'uomo fascista e della sua sintesi vitale attivista e volitiva con cui furono travisati i valori tradizionali della società borghese che veniva, in questa nuova ottica, disprezzata e ridicolizzata. Fu una rivoluzione sociale e societaria che incise profondamente sull'educazione e sulla formazione di intere generazioni. In campo di politica estera le mire espansionistiche territoriali di Mussolini aprirono il fronte delle conquiste in Africa che portarono però ad un atteggiamento ostile delle grandi potenze democratiche. In occasione della campagna di conquista e di invasione dell'Etiopia da parte delle truppe italiane e la successiva proclamazione dell'Impero, vennero votate delle sanzioni economiche dalla Società delle Nazioni e questo fece si che Mussolini si orientasse (forse anche a malincuore) verso la Germania nazional-socialista (nazista) di Hitler (*) , che fino a quel momento era stata
HITLER ADOLF
(Braunnau 1889 - Berlino 1945)


dopo avere partecipato alla Prima Guerra Mondiale come caporale nell'esercito Austro-Ungarico, si diede alla politica divenendo capo del Partito Nazional Socialista Tedesco dei Lavoratori nel 1921, l'anno seguente ne divenne anche il teorico con il libro "la mia battaglia". Combinando l'organizzazione armata con la demagogia socialista, fervente ammiratore del Fascismo di Benito Mussolini, favorito da una situazione di profonda crisi economica, si impegnò a fondo nella politica per l'abbattimento della repubblica parlamentare nella Germania del dopo guerra. Nominato Cancelliere del Reich nel 1933, nel 1934 eliminò ogni opposizione interna al partito e, con il titolo di Führer, divenne il dittatore assoluto dello Stato, attuando una politica ispirata ad un forte nazionalismo e alla repressione di ogni forma di opposizione cancellò ogni forma di rappresentazione democratica. La sua politica di espansione territoriale sfociò nell'invasione della Polonia (1939) alla successiva dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra e alla apertura della "II Guerra Mondiale". Dopo una iniziale fase favorevole con la conquista di Francia, Svezia e penisola Balcanica, fino alla Grecia, intraprese, con la "Operazione Barbarossa" l'invasione della Russia. I successivi tracolli militari da Stalingrado al Nord Africa portarono gli eserciti tedeschi al tracollo fino alla definitiva totale disfatta con l'occupazione del territorio tedesco da parte delle truppe alleate: Inglesi, Americani, Francesi e Russi. Hitler si suicidò nel 1945 nel suo bunker a Berlino, poco dopo avere sposato la sua compagna Eva Braun.
osservata, dal Duce, solo con una certa sufficienza. Nell'ottobre del 1936 venne firmato l'Asse Roma-Berlino e l'unione politica tra Italia e Germania crebbe e si consolidò con l'intervento coordinato italo-germanico (non ufficiale e, formalmente, solo "volontario") nella guerra civile spagnola che insanguinò la penisola iberica dal 1936 al 1939. Questa unione militare e politica, rafforzata nei comuni concetti di espansionismo e di conquista dello "spazio vitale", portò il regime fascista ad adottare (o "dover" adottare per compiacere Hitler) una politica razzista e una legislazione antisemita di stampo nazista (1938) e a farsi poi attirare completamente nel vortice infausto della Seconda Guerra Mondiale. Era un caldo pomeriggio di quasi estate, anche in Valle Camonica, quello del fatidico 10 giugno 1940: tanta gente si era riversata nelle piazze dei nostri paesi e dagli altoparlanti e dalle radio tutti appresero che l'Italia era entrata in guerra contro la Francia e l'Inghilterra, già in guerra con la Germania da otto mesi, dalla invasione, dal 1° settembre 1939, della Polonia. Ben coordinate dalla propaganda del regime, anche a livello locale, vi furono manifestazioni di esaltazione parossistica per l'iniziativa di Mussolini, ma vennero segnalate anche (poche e isolate) contestazioni che furono però subito messe a tacere, con esplicite minacce di disfattismo, da parte dei dirigenti locali del fascio. Le cause che avevano spinto l'Italia ad entrare in guerra, per molti Camuni e per moltissimi Italiani, erano totalmente sconosciute o addirittura mal o non capite: la propaganda fascista parlava di azione punitiva nei confronti delle debosciate e vecchie democrazie che volevano limitare l'espansionismo delle giovani nazioni fasciste e naziste e si sottolineava anche il ferreo patto di alleanza con la Germania, che con le sue potenti armate aveva già travolto la Polonia e stava dilagando nel nord della Francia. Molto demagogicamente, la propaganda fascista insisteva sul fatto che Mussolini era stato "obbligato moralmente" a buttarsi nel vortice della guerra per il prestigio del popolo, del regime e dell'intera nazione che era stata provocata ecc ecc.

10 giugno 1940:
La dichiarazione di guerra
alla Francia e all'Inghilterra
Molti giovani Camuni erano già in divisa e molti altri vennero richiamati al servizio militare e tantissimi cominciarono a partire per i vari fronti: tanti, troppi di loro non fecero più ritorno vivi nella nostra terra. Molti, anche solo con miseri resti mortali chiusi in piccole bare avvolte nel tricolore, non ritorneranno mai più: di questi rimane solo il profondo ricordo in sbiadite fotografie, che li ritraggono in divisa, o in nomi incisi su qualche lapide: furono (sono) gli innumerevoli dispersi sugli spogli monti dell'Albania, nelle aride terre del deserto africano o nelle fredde tundre della Russia. Il 22 giugno 1941, ormai secondo anno di guerra e dopo la rapida e fulminea conquista dei Paesi Bassi, Belgio, Svezia, della Francia, della Jugoslavia e della Grecia e gli accordi politici con Ungheria e Romania, fu lanciato, da Hitler, con l'Operazione Barbarossa, l'attacco alla sterminata Unione Sovietica. Ora credo proprio che sia necessario aprire una significativa parentesi storica e cronologica su quella che fu per l'Italia (e per la nostra Valle Camonica in particolare) la più tragica vicenda della guerra: la campagna di Russia. La campagna d'Africa, o quelle, pur terribili delle isole greche, pur essendo contemporanee e addirittura anteriori a quella russa, non furono altrettanto funeste e orribili nei numeri (sempre se pur diverse fasi di una guerra possono definirsi meno terribili di altre). Non va certo dimenticato che furono molti i Camuni che persero la vita nei caldi deserti del nord Africane nelle isole del Mediterraneo (e, dopo l'armistizio con gli Alleati, anche per mano tedesca). Ma… della "campagna di Russia" fase importantissima e determinante dell'intera seconda guerra mondiale ne scrivo abbastanza dettagliatamente, anche in questa storia della nostra Valle, poiché furono tantissimi gli Alpini camuni che parteciparono alla spedizione italiana e purtroppo molti, troppi, tantissimi non fecero più ritorno nella nostra terra. Era il 26 giugno 1941 quando Mussolini, a Verona, passò in rassegna la divisione "Torino", la prima del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR). Il grande attacco tedesco alla Unione Sovietica era iniziato da appena quattro giorni e Mussolini ne era già stato informato (contrariamente a quello che si dirà poi) e subito aveva dato direttive (visto l'andamento favorevole dell'intera guerra, su tutti i fronti) per organizzare la spedizione di un corpo d'armata su quel fronte lontanissimo. Le forze del CSIR comprendevano, oltre alla "Torino", "divisione motorizzata" di fanteria, ma in realtà ben poco motorizzata, l'altra divisione di fanteria "Pasubio", un poco più equipaggiata di mezzi di trasporto, e la "3° Celere", l'unica a essere in realtà una grande unità armata modernamente e preparata ad affrontare un conflitto come quello che era in atto. Il Corpo di spedizione, il cui comando venne assunto il 17 luglio dal generale Giovanni Messe (che, nonostante i rovesci militari, molti storici riterranno essere uno dei migliori comandanti d'armata italiani), arrivò, dopo ben 25 giorni di viaggio, al suo punto di raccolta in Romania, con più di un mese di ritardo sulla prima tabella di marcia che era stata concordata con gli alleati Tedeschi. I tanti giorni, persi nella estenuante trasferta sulle lentissime tradotte, che in Austria, Ungheria e Romania dovevano lasciare regolarmente il passo ai treni tedeschi, facendo lunghe e pesanti soste in molti svincoli ferroviari, portarono, al momento dell'arrivo, ad una situazione imbarazzante: le nostre truppe si trovarono a notevole distanza da quel fronte a cui erano destinate.

Cartelli indicatori
italo-tedeschi
durante l'avanzata
nella steppa russa
Infatti, con la solita veemenza che aveva dato ottimi risultati in Francia, con attacchi ben coordinati e, va indubbiamente riconosciuto ai generali di Hitler, i Tedeschi, splendidamente diretti, già il 19 luglio avevano forzato le linee russe sul fiume Dnestr ed erano avanzati fino ad Uman, a nord-ovest di Odessa, che venne occupata il 9 agosto. Le divisioni del CSIR, quando giunsero in territorio russo, vennero così a trovarsi a più di 400 km di distanza dalla loro destinazione sul quel fronte che avanzava ben più celermente delle loro tradotte. La prima linea di contatto con il nemico continuava a spostarsi sempre più velocemente verso est e sud-est e solo la "Celere" a la "Pasubio" riuscirono a raggiungere, in tempi accettabili, la nuova linea d'attacco a cui erano state comandate. La "Pasubio", il 10-11 agosto, ebbe anche il suo "battesimo del fuoco", prendendo parte ad alcuni scontri con le retroguardie dei Sovietici che erano in rapida ritirata oltre il Dnepr. Il CSIR al completo entrò effettivamente in azione solo verso la metà di settembre, sulla linea del Dnepr, che i Tedeschi avevano già raggiunto all'inizio del mese costituendo, sullo slancio della loro travolgente avanzata, anche alcune teste di ponte fortificate oltre il grande fiume. Sempre avanzando, dalle posizioni vicine a Dnepropetrovsk, negli ultimi giorni di quel tiepido settembre, il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, affiancato dal XIV corpo corazzato tedesco, affrontò la prima azione di una certa rilevanza tattica occupando la città di Petrikovka, poco a est del Dnepr. Fu un buon successo militare e strategico: gli Italiani fecero 10.000 prigionieri e si impadronirono di molte armi e materiali, subendo la perdita, relativamente piccola, di 300 uomini fra morti e feriti. Dopo questa brillante operazione il corpo di spedizione italiano si trovò però nuovamente alle prese con il solito problema della scarsa mobilità, che affliggeva in modo particolare la divisione "Torino". Infatti i Sovietici, perse Poltava e Kiev, effettuarono una vasta e rapida ritirata che permetteva loro, pur perdendo terreno, di guadagnare tempo, e i Tedeschi, incuranti che i loro alleati potessero sostenere la stessa velocità di marcia, si lanciarono al loro inseguimento. Gli Italiani, in buona parte appiedati restarono molto indietro e sempre più lontani dal fronte di attacco che continuava a spostarsi sempre più ad est. Tutte e tre le divisioni italiane, con gravi disagi e notevoli sacrifici, riuscirono tuttavia a partecipare alla nuova fase operativa, raggiungendo il 10 ottobre Pavlograd, 100 km a est del Dnepr. Subito dopo l'intero Corpo d'Armata ricevette l'ordine di prendere parte, con gli alleati Tedeschi, alla battaglia per Stalino (poi chiamata di Doneck). La divisione "Torino" non riuscì però a giungere in tempo: non si poteva infatti pretendere che i nostri soldati marciassero alla stessa velocità delle divisioni motorizzate e corazzate tedesche, per più di 200 km e per giunta in condizioni meteorologiche che già in quei giorni erano mutate (dopo un'estate calda e polverosa vi furono diversi giorni di piogge insistenti che trasformarono le strade in paludi di fango) e preannunciavano il rigidissimo inverno russo. In un primo momento gli Italiani vennero schierati su una lunga linea che andava da Gorlodka a Kirovo, a nord di Stalino, ma i loro rifornimenti, e in parte le artiglierie, erano ancora ben lontani alle loro spalle, disseminati, anche disordinatamente, per una profondità di 300 km nelle retrovie e nei punti di smistamento, molte volte caratterizzati da un notevole caos organizzativo. Comunque in breve tempo, le nostre truppe, riuscirono a presidiare il loro settore del fronte e, in mancanza di meglio, come accantonamenti si videro obbligati a sequestrare le isbe dei paesi della zona. Dalla popolazione locale, gli Italiani, erano generalmente accolti (o sopportati) decisamente meglio dei loro camerati germanici, troppe volte gratuitamente violenti e prepotenti. Il problema fondamentale restava quello di fortificare, anche solo sommariamente, i vari villaggi occupati, prima di insediarvisi in modo permanente, e questo doveva esser fatto, data la natura del terreno della steppa ucraina e l'evolversi continuo e instabile del fronte, molte volte sotto la minaccia persistente del fuoco nemico. A novembre, un violento contrattacco sovietico (a ragione i Russi confidavano nel "Generale Inverno") chiuse temporaneamente in una sacca un reggimento di fanteria italiana che, dopo aspri combattimenti riuscì a fatica a liberarsi dall'accerchiamento. Intanto, su quelle piatte pianure sferzate dal gelido e tagliente vento del nord, la temperatura era scesa vertiginosamente: in media oscillava tra i 28° e i 35° sotto zero, con punte (tutt'altro che rare) anche di meno 50°. Dopo il contrattacco russo di fine novembre, il comando italiano, nella prima metà di dicembre, si assicurò una linea difensiva con diverse postazioni organizzate in modo che, tutto sommato viste le situazioni meteo da sopportare, rendevano quasi accettabili le condizioni di vita. Per compiere questa "stabilizzazione" del fronte (invernale) dovette essere impegnato tutto il CSIR, in particolare la divisione "Torino" che, appoggiata dalla 111a divisione tedesca, per giorni fu duramente impegnata in una battaglia che costò alle forze italiane ben 2.000, fra morti, feriti e (specialmente) congelati. A questo punto, il generale Messe informò il comando tedesco che il CSIR non poteva, come gli si chiedeva, avanzare ulteriormente verso est e tentare di sfondare le linee russe che si erano fortificate su un lungo fronte ben organizzato e fortemente difeso da carri, artiglieria e truppe fresche. D'altronde, il Corpo Italiano doveva combattere in condizioni di grave e documentabile inferiorità, sia nei confronti dei nemici sovietici sia dei (meglio attrezzati) camerati tedeschi (e questo doveva valere per tutta la disastrosa campagna di Russia). I ritardi e le difficoltà nei collegamenti tra il fronte italiano e i centri della sussistenza della nostra armata, fecero in modo che, per esempio, gli scarponi adatti al rigido clima e al terreno fangoso o gelato, che pure erano stivati in quantità nei magazzini divisionali, non vennero mai distribuiti. I casi di congelamento ai piedi furono tra le cause maggiori di inabilità al combattimento per molti soldati italiani che dovettero essere ricoverati o ritirati dal fronte e mandati nelle retrovie o addirittura (in pochi casi e tenuti nascosti) in ospedali militari in patria. Anche i mezzi meccanici subirono le rigidissime temperature e, scarseggiando o essendo del tutto assente il liquido anticongelante gli autocarri e le camionette si bloccavano con i radiatori fuori uso. Sul fronte bellico vi furono sporadici scontri e subito risultò chiaro che i pochi carri medi italiani utilizzabili, così come i cannoncini controcarro da 37, poco o nulla potevano contro gli enormi T34/85 da 31,5 tonnellate sovietici, armati di un potente e veloce cannone da 85mm, oltre alle mitragliere, con una corazzatura spessa fino a 75mm e specialmente dotati di larghi cingoli con i quali potevano affrontare qualsiasi tipo di terreno senza impantanarsi, bloccarsi o scivolare sulla neve ghiacciata. Una magra consolazione per i nostri soldati derivava dal fatto che quasi nella stessa difficile e aleatoria situazione di precarietà si trovavano anche molti mezzi, terrestri e aerei, degli organizzatissimi alleati Tedeschi che avevano (erroneamente) programmato, a tavolino, la sconfitta dei Sovietici prima dell'arrivo della stagione invernale. I comandi strategici di Berlino non avevano avuto modo di organizzare completamente i rifornimenti per le proprie truppe facendo giungere alla prima linea tutto il materiale necessario a trascorrere un inverno in quell'inospitale territorio, dove i soldati dovevano stare rintanati in postazioni provvisorie e immobilizzati, in cerca di protezione dal freddo e dalla neve, su un fronte così sterminato. Il giorno di Natale (del 1941) un corpo d'armata sovietica formato da 3 divisioni di fanteria e da 3 di cavalleria, attaccò di sorpresa il settore presidiato dalle truppe italiane. La divisione più pesantemente e fortemente impegnata fu la "Celere". Dopo aver respinto il massiccio attacco dei Russi, gli Italiani, che, sotto la prima spallata, avevano dovuto cedere alcuni villaggi fortificati, passarono addirittura al contrattacco mettendo in campo una controffensiva che iniziò il giorno dopo (di Santo Stefano) e si protrasse fino all'ultimo giorno dell'anno, ristabilendo e addirittura migliorando la situazione territoriale precedente. I Sovietici, in questa azione, contarono circa 2000 morti e furono circa 1200 i prigionieri catturati sul campo che gli Italiani mandarono nelle retrovie. Pesante purtroppo anche il bilancio per gli Italiani: i morti e i feriti furono circa 1500, in maggioranza fra i soldati della "Celere". Probabilmente in seguito a una richiesta avanzata da Hitler nel primo semestre del 1942, in previsione di una nuova massiccia fase offensiva generale che l'alto comando tedesco aveva programmato, tra gennaio e luglio, il CSIR venne integrato con l'invio di cospicui rinforzi. Nacque così, ufficialmente il 9 luglio (1942), l'VIII armata chiamata anche Armata Italiana in Russia (ARMIR) che ormai era composta da 10 divisioni e da ben 230.000 uomini. Il vecchio CSIR venne trasformato nel XXXV corpo d'armata a cui venne aggiunto il II corpo d'armata, che a sua volta era formato dalle divisioni "Ravenna", "Sforzesca" e "Cosseria". Le "nuove" truppe italiane arrivarono a Stalino ai primi di luglio e il Corpo d'Armata alpino, con le leggendarie divisioni "Tridentina", "Julia" e "Cuneense", giunse sul fronte tra la fine luglio e la prima metà di agosto: tra questi alpini moltissimi erano i Camuni. Completava l'armata italiana una divisione autonoma: la "Vicenza". Nel frattempo, già con l'inizio della primavera, la I e la XVII Armata tedesca erano nuovamente avanzate profondamente in territorio sovietico dirigendosi direttamente verso Rostov, mentre la VI Armata puntava velocemente e senza incontrare molta resistenza, su Stalingrado. Le manchevolezze nell'Armata Italiana erano comunque le solite: discrete le armi portatili, insufficienti e antiquate le artiglierie, specie i cannoni controcarro, del tutto inadeguati i carri armati, troppo leggeri (erano soprannominati "scatolette di sardine", scarsi di numero e per giunta, colmo dell'ironia, essendo in origine destinati al fronte africano erano stati "mimetizzati" con colorazioni "sabbia" per il deserto e questo li rendeva perfettamente visibili, anche a grande distanza, sia sulla neve sia contro il verde della vegetazione. La nuova VIII armata italiana venne impegnata per la conquista del bacino minerario di Krasnaja Poljana, e la divisione "Celere" da metà luglio a metà agosto combatté, con risultati positivi, a fianco dei Tedeschi, per ridurre la testa di ponte che i sovietici erano riusciti a stabilizzare a Serafimovic, a nord-ovest di Stalingrado, su cui seguitava a premere, in forze, la VI armata tedesca che avanzava sempre con rapidità in territorio nemico. Le unità italiane vennero schierate lungo il corso del Don, e su di esse si abbatté, il 20 agosto, una veemente controffensiva nemica, che riuscì ad aprire una breccia nello schieramento della "Sforzesca". A contrastare il passo alle truppe nemiche in quel settore vi erano due reggimenti di cavalleria, il "Savoia" e il "Novara", il primo dei quali fu protagonista, il 24 agosto, di quella che resterà nella memoria delle nostre forze armate come l'ultima "carica di cavalleria" nella storia militare italiana: 500 cavalleggeri, completamente circondati dal nemico, andarono all'assalto dei giganteschi carri armati e delle numerose mitragliatrici con i soli moschetti e le sciabole: la sorpresa tra il nemico per l'ardire di questa azione, fu tale che i "Savoiardi" riuscirono a sbaragliare ben 2.000 Sovietici che erano ben protetti da due forti linee trincerate.

Cavalleria italiana nella stesspa russa:
il reggimento Savoia e
il reggimento Novara.
Questa azione fu citata con enfasi sui bollettini di guerra sia italiani che tedeschi. I camerati teutonici erano rimasti particolarmente colpiti dal coraggio dimostrato dagli Italiani e manifestarono la loro ammirazione con lunghi articoli sulla stampa, nei bollettini radio e nei cinegiornali che vennero ripresi e ulteriormente propagandati da quelli del regime fascista. Le unità dell'ARMIR, dispiegate su un fronte che tutti consideravano (e sapevano) troppo esteso per le sole truppe italiane, lungo gran parte del Don, avrebbero dovuto ricevere l'aiuto di 3 divisioni tedesche auto trasportate ed essere protette da una possente divisione corazzata (pure tedesca), che avrebbe dovuto spostarsi velocemente e accorrere nei punti più delicati della linea difensiva, come era stato previsto dai piani elaborati dagli stati maggiori riuniti italo-tedeschi. In realtà, in linea arrivò solo una delle divisioni tedesche promesse, e venne schierata nel punto più "ristretto", al centro del fronte tenuto dagli Italiani, fra la "Pasubio" e la "Ravenna". La linea da presidiare era dunque lunghissima: l'ala sinistra era difesa dal corpo d'armata alpino (in cui moltissimi Camuni vestivano la divisa e portavano il celebre cappello con la penna), la destra era "coperta" dalla "Celere" e dalla "Sforzesca". Fermo il fronte gli Italiani (che erano stati integrati da truppe ungheresi, rumene e da pochi tedeschi) dovevano montare la guardia al "placido Don", in buche-rifugio, secondo una disposizione "a riccio", con capisaldi necessariamente distanziati l'uno dall'altro, lasciando, per forza di cose, varchi nei quali, di notte, si potevano infiltrare le pattuglie sovietiche. Fu su questo schieramento troppo rado e fragile che l'11 dicembre (1942) venne sferrata un'altra possente offensiva. Approfittando del fatto che il Don fosse completamente gelato e la crosta di ghiaccio avesse raggiunto un notevole spessore e sopportasse dunque grandi pesi, due armate sovietiche, con 500 carri medi e pesanti e 2500 cannoni mobili si spinsero verso le linee presidiate dai nostri soldati, sferrando un attacco di massa su un fronte di parecchi chilometri. Dopo cinque giorni di strenua resistenza, quando la "Ravenna" e la "Cosseria" erano rimaste senza munizioni, l'attacco sovietico, incrementato da incessanti bombardamenti terrestri e aerei, travolse prima la "Ravenna" e la "Cosseria", poi la "Pasubio" e la "Celere", che venne praticamente sterminata insieme alla divisione tedesca che si era portata in quel settore. Incominciò una terribile e disordinata fuga, che vedeva Italiani, Tedeschi, Rumeni e Ungheresi trascinarsi confusamente, sotto il fuoco nemico e in tremende condizioni climatiche, verso una remota, lontanissima salvezza che distava centinaia di chilometri di gelata tundra percorsa dai carri nemici e battuta dagli aerei russi. In linea restò, completamente solo e isolato, il Corpo d'Armata alpino (quanti bresciani, bergamaschi, piemontesi, veneti !), affiancato da due battaglioni tedeschi, che si batté eroicamente tanto che gli stessi comandi Russi ammetteranno che: "Gli unici soldati che non abbiamo vinto sono stati gli Alpini italiani". La resistenza durò fino al 17 gennaio (del 1943), quando già ormai da più di 72 ore (tre giorni e due notti) i Sovietici si trovavano a 80 km alle spalle delle linee italiane. Altri due giorni dopo iniziò la ritirata dei 60.000 Alpini superstiti, che nella loro "marcia della morte" dovettero più volte aprirsi la strada combattendo contro le preponderanti forze nemiche. L'episodio più celebre ed eroico, importante ed esaltante di tutta la ritirata, fu certamente la battaglia di Nikolajewka, combattuta strenuamente il 27 gennaio 1943 (4 giorni prima della capitolazione tedesca a Stalingrado). Nel freddo polare, una colonna di Alpini, quasi completamente disarmati o forniti solo di armamento leggero, riuscì a sfondare un massiccio schieramento di carri pesanti e artiglierie sovietici, creando una profonda breccia che consentì a buona parte di quanto restava dell'VIII armata di raggiungere la salvezza. Dopo un calvario lungo 350 km, la "maledetta campagna di Russia", per i nostri Alpini, terminò il 30 gennaio con lo sganciamento dalle truppe nemiche e una momentanea stabilizzazione del fronte. Tra incredibili difficoltà e enormi sacrifici, nella grande ritirata di quel terribile inverno russo, la "Julia" perse 12.350 uomini, la "Tridentina" 11.800, la "Cuneense" quasi 20.000. Le perdite nell'intero corpo di spedizione italiano furono però anche molte altre e forse non saranno mai esattamente precisate: migliaia di soldati di altre unità persero la vita a causa degli attacchi nemici o del freddo e degli stenti: mai l'Esercito italiano soffrì in così pochi giorni una simile ecatombe di uomini e mezzi. Dei 230.000 uomini che componevano l'ARMIR tornarono a calcare il suolo della patria meno della metà. Molti, moltissimi di questi reduci, rimasero minati profondamente nel fisico per le ferite e per i numerosi casi di congelamento che portarono anche a gravi amputazioni e pesanti traumi. L'ultima tradotta, con tanti Alpini camuni, partita dalle lontane terre dello sterminato est sovietico, arrivò in Italia solo verso la metà di maggio (1943), a distanza di neanche due mesi dallo sbarco alleato in Sicilia e dalla caduta di Mussolini. Le vicende di quei tristi lunghissimi e freddissimi giorni sono state ricordate in innumerevoli racconti e libri che hanno sempre sottolineato la forza d'animo degli Alpini e le indicibili sofferenze che questi ebbero a sopportare per potersi ritirare, abbandonati da tutti e circondati da forze nemiche enormemente più possenti e meglio equipaggiate, e fare ritorno in patria. Molti Camuni furono protagonisti di quelle tragiche vicende e in molti morirono di anche di spossamento, di cancrena da congelamento e di ferite, di dissenteria, di assideramento. Tanti furono anche quelli che, per aprire una via di fuga ai camerati si buttarono all'assalto delle truppe russe e sacrificarono la loro vita per poter permettere agli altri di passare. Furono innumerevoli gli atti di eroismo che non verranno mai ricordati ma che resteranno per sempre sepolti sotto una silenziosa e uguale per tutti, amici e nemici, coltre di neve bianca macchiata da tanto sangue. Tanti episodi, piccoli e grandi, ma sempre di indicibile sofferenza, ci sono stati raccontati e che sono rimasti indelebilmente impressi nella memoria di quelli che sono tornati e che, per nostra fortuna, non hanno permesso, con la loro testimonianza, che tutto venisse dimenticato. Intanto, a migliaia di chilometri di distanza, nel torrido mese di luglio nella caldissima Sicilia, gli alleati, come già scritto, erano sbarcati sul territorio nazionale e, con questa azione militare: il primo sbarco e assestamento con conquista territoriale nella fortezza "Europa", portarono indirettamente alla caduta del regime fascista. Il 25 luglio, a poche ore di distanza dalla riunione del Gran Consiglio che aveva messo in minoranza Mussolini, vi fu, su ordine del Re Vittorio Emanuele III, l'arresto del Duce e sempre su ordine del Re il giorno dopo (26 luglio) vennero sciolte tutte le organizzazioni fasciste ponendo ufficialmente termine a un ventennio di dittatura. Gli Italiani, quasi tutti gli Italiani, alla lettura del confuso e vago proclama del Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio (*) sulle dimissioni di Mussolini (non si accennava all'arresto del Duce ma veniva sottolineato il fatto che il Re
PIETRO BADOGLIO
(Gazzano Monferrato 1871 - 1956)


Maresciallo d'Italia. Sottocapo, poi capo di stato maggiore alla fine della guerra del 1915 - 18, senatore dal 1919. Dopo la nomina ad ambasciatore in Brasile, venne nominato governatore della Libia appena conquistata (1929 - 33). Fu nominato comandante in capo dell'armata Italiana in Somalia e condusse, dal 1935, la campagna per la conquista dell'Etiopia, entrando nel 1936 ad Addis Abeba. Capo di stato maggiore all'inizio della seconda guerra mondiale, diede le dimissioni nel dicembre del 1940, dopo l'insuccesso dell'attacco alla Grecia, che lui stesso aveva sconsigliato a Ciano e Mussolini. Incaricato da Vittorio Emanuele III, dopo l'arresto del Duce, nel 1943, di formare il nuovo governo, accettò la successione di Mussolini frenando le tendenze repubblicane affermatesi con la caduta del fascismo e, fuggito a Brindisi con i membri della Casa Reale operò il mutamento di fronte dell'Italia: dall'alleanza con la Germania alla "cobelligeranza" con gli alleati. Mantenne la guida del governo per alcuni mesi, raggiungendo accorsi politici anche con il leader comunista Togliatti, sino alla costituzione del primo governo di liberazione nazionale (1944), retto da Bonomi. Si ritirò poi a vita privata nei suoi possedimenti piemontesi del Monferrato.
aveva accettato le dimissioni del cavalier Benito Mussolini…) e la sua nomina a capo del governo, sul fatto che la guerra continuava (non si capiva con chi e dove) trasmesso in continuazione alla radio, pensarono che la guerra fosse finita e vi furono scene di giubilo in tutte le piazze e in ogni paese e ovunque vennero abbattuti i simboli mussoliniani e fascisti. La guerra, invece, non era certo finita e solo l'8 settembre, dopo ben 43 giorni, un troppo lungo periodo di incertezze, insicurezze, ordini e contrordini che portarono allo sfascio l'esercito italiano e l'intera nazione, venne sottoscritto, a Cassibile, l'armistizio senza condizioni, con gli Alleati che occupavano buona parte del sud Italia. I Tedeschi, che praticamente erano presenti già con numerose divisioni nella nostra penisola, approfittando della confusione generale e del totale abbandono in cui le forze armate italiane erano state lasciate dopo la caduta di Mussolini e del suo governo, inviarono altri contingenti di truppe corazzate che, quasi senza incontrare resistenza, presero il totale controllo del territorio nazionale, compresa la capitale Roma. Nel breve volgere di pochi giorni da camerati i Tedeschi divennero, per coloro che avevano seguito le direttive del nuovo governo, e del Re, i nemici a cui, secondo i troppo criminalmente tardivi appelli di Badoglio e dei nuovi alleati, si doveva opporre resistenza. In quel frenetico e caotico breve (ma interminabile) periodo molti reparti dell'Esercito italiano si sciolsero spontaneamente e molti giovani militari, buttando la divisa, cercarono disperatamente, con ogni mezzo, di tornare verso le proprie case e i propri paesi. Tanti soldati, non sapendo davvero cosa fare e come comportarsi e che non avevano abbandonato il proprio reparto vennero, dai Tedeschi, sorpresi nelle caserme o rastrellati nelle città o campagne, disarmati e rinchiusi su tradotte o treni che avevano per destinazione i campi di lavoro o di concentramento in Germania. Questi militari ancora in divisa, forzosamente deportati, in pochi giorni, furono in totale più di 600.000, tra soldati, sottufficiali e ufficiali. Contemporaneamente quelli che erano riusciti a scappare agli arresti e ai rastrellamenti andarono ad ingrossare le già consistenti file degli sbandati e, di quelli che si erano dati alla macchia per sfuggire alla coscrizione o al lavoro obbligatorio. Nessuno sapeva come comportarsi e la confusione era totale: anche la Valle Camonica, solo tre giorni dopo la firma dell'armistizio, venne occupata militarmente dalle truppe tedesche e divenne a tutti gli effetti terra sotto la giurisdizione militare germanica. I comandi territoriali tedeschi emisero subito delle direttive e delle ordinanze in cui veniva ricordato che "ogni cittadino è responsabile della sicurezza della casa, del villaggio e delle cose utili alla comunità, in ogni Comune tutti gli uomini validi dai 18 ai 50 anni sono obbligati a prestare servizio di vigilanza agli obiettivi di importanza militare e civile...". I giovani e gli uomini adatti al lavoro o alle armi erano però praticamente spariti dalla circolazione, anche perché vi era un ordine del comando supremo dello stato maggiore tedesco che ordinava a tutti coloro che erano ritenuti abili o che stavano già prestando il sevizio militare, di presentarsi presso il più vicino ufficio di leva per ricevere ordini ed essere poi inquadrati in nuovi reparti che i Tedeschi avevano intenzione di organizzare in Germania e di inviare sui vari fronti (meno quello italiano). Visto lo scarso entusiasmo che aveva suscitato, tra la popolazione, l'occupazione dei "camerati" tedeschi e, tra i coscritti, la scarsa risposta alle precedenti ordinanze, ma specialmente la protezione che la gente offriva spontaneamente ai militari alleati che venivano a trovarsi sul territorio occupato dai nazisti, le minacce di ritorsioni divennero ben più consistenti: in un altro manifesto venne stabilito che: "Chiunque presti aiuto in qualsiasi modo a prigionieri di guerra evasi dai campi di concentramento o dai luoghi di pena ove sono custoditi, e chiunque presti aiuto o conceda ospitalità ad appartenenti alle forze armate nemiche allo scopo di facilitare la fuga o di occultarne la presenza, è punito con la pena di morte." Il 12 novembre 1943 Mussolini fu liberato dal suo stato di prigionia dopo che era stato trasferito nella "caserma-osservatorio" posta sul Gran Sasso. Paracadutisti tedeschi con una audace, rapidissima e incruenta azione raggiunsero il Duce e, neutralizzati i pochi poliziotti presenti, fattolo salire su un piccolo aereo (una delle famose Cicogne che potevano decollare e atterrare in poche decine di metri) fu trasferito in Germania. L'episodio, clamoroso specie per le conseguenze politiche che produrrà, fu sbandierato ed esaltato dalla propaganda nazista ed ebbe vastissima eco: lo stesso giorno, appena giunto in aereo a Monaco di Baviera, accolto da Hitler, il Duce annunciò immediatamente (spinto e obbligato dall'ingombrante alleato) la ricostituzione del "Partito fascista" e il proseguimento della guerra a fianco degli alleati tedeschi. Il 23 (novembre 1943) Mussolini, ormai completamente in balia e sotto la regia dei nazisti, dette vita alla Repubblica Sociale Italiana e, dopo che gli fu negata come capitale Milano, fu obbligato a stabilire la sede di tutti i suoi ministeri in vari paesi sparsi sulle rive del lago di Garda: da qui il nome di "Repubblica di Salò" e il soprannome dato ai fascisti aderenti a questa istituzione: "Repubblichini". Furono tanti i giovani e le giovani che, avendo assorbito la propaganda fascista durante gli ultimi vent'anni, e credendo nei valori che questa aveva loro inculcato, si "sentirono moralmente obbligati" a difendere il Duce e il suo regime e fecero coscientemente la scelta di vestire le nuove nere divise delle forze armate fasciste.

Benito Mussolini
nel momento in cui venne liberato
dalla prigione sul Gran Sasso.
Altri giovani, tra cui numerosi sbandati, e molti ex-militari che non vollero aderire (per scelta politica o per le reali contingenze del momento) alla RSI di Mussolini si videro costretti, per non subire pene pesantissime (anche la morte), a darsi alla macchia e andarono ad ingrossare le file dei "ribelli" che stavano già agendo clandestinamente, come squadre armate e operative, dall'indomani della caduta del fascismo e all'arrivo in Italia delle truppe tedesche. Era stato proprio alla rapida dissoluzione del regime fascista che si era costituito il C.N.L:: Comitato di Liberazione Nazionale a cui aderirono i vertici politici dei principali partiti antifascisti che tornavano alla luce dopo un ventennio: PCI, DC, Partito d'Azione, PSIUP, PLI e Democrazia del Lavoro. Anche in Valle Camonica alcuni giovani e militari camuni fuggiti dai reparti o che erano riusciti a tornare a casa, erano tenuti nascosti dalla popolazione, malgrado la pericolosità di tale azione. Visti però i continui controlli, rastrellamenti e arresti effettuati dalle squadre nazi-fasciste, la maggior parte fuggirono sui monti divenendo "ribelli" (e "partigiani"). Altri invece, seguendo o l'interesse del momento o, in molti casi, anche la propria fedeltà a quel regime (impersonato dal Duce) sotto cui erano cresciuti e in cui avevano creduto, rispondendo alla chiamata di Mussolini, si arruolarono nelle schiere repubblichine: si apriva così la triste pagina della "Guerra Civile" che devastò, nei 18 mesi successivi l'Italia del Nord, molte coscienze, tante famiglie e più di una generazione. Come in gran parte del territorio nazionale occupato dai Tedeschi, a similitudine di quanto era già accaduto da quasi un paio d'anni in Jugoslavia e in Francia e in altre terre occupate dai nazisti e dai fascisti, il movimento partigiano aveva posto le sue prime radici anche in Valle Camonica e, come in altre valli alpine, si stava consolidando nelle sue strutture. La data "ufficiale" della nascita, nell'area Camuno Sebina, delle prime iniziative anti nazi-fasciste potrebbe essere fatta risalire al 5 novembre (1943) quando il tenente degli alpini Romolo Ragnoli, giunse clandestinamente a Cividate Camuno e si fece riconoscere dall'arciprete, don Carlo Comensoli, mostrando al sacerdote una mezza lira di carta, segno stabilito per l'identificazione tra i "ribelli". Ragnoli si mise subito al lavoro e, ottimo organizzatore, in poco tempo stese un primo piano generale in cui venivano gettate le basi per una reale pianificazione delle truppe partigiane (che fino ad allora avevano agito indipendentemente e si erano mosse in modo non coordinato e senza precisi obbiettivi, in molti casi anche vessando la popolazione con ruberie e violenze poiché spesso, ai "ribelli", che agivano per sopravvivere, si erano uniti anche dei piccoli delinquenti e dei balordi che approfittavano della situazione caotica per compiere atti criminosi…) e delle zone di operatività dividendo la Valle in vari settori che presero i nomi delle varie montagne. Molti dei Partigiani operavano in zone a loro conosciute poiché in buona parte erano militari, specie alpini, alpini che, prigionieri di guerra, erano riusciti a scappare dai campi di concentramento durante la confusione seguita ai fatti dell'8 settembre, ed erano ritornati, con grandi difficoltà, nelle loro vallate d'origine. Alcuni dei partigiani operanti in Valle Camonica però non erano Camuni ma si erano fermati in valle poiché, nella loro fuga, tentando di raggiungere la neutrale (e tanto agognata) Svizzera, erano transitati dalle nostre contrade e, dati i pressanti e continui controlli nei pressi delle frontiere, non erano riusciti a proseguire e a passare il confine. Proprio per questi motivi (la vicinanza alla Valtellina e alla Svizzera), le prime formazioni partigiane camune incominciarono ad operare sui monti intorno a Sonico, in val di Corteno e al confine con la stessa Valtellina e sulle montagne sopra Bienno e verso il passo di Crocedomini. Altri "sbandati o ex militari" fuggiti dai loro reparti prima di essere "rastrellati" dai Tedeschi, si erano fermati in valle volontariamente per operare nelle neo formazioni partigiane. Gli scontri a fuoco fra i "ribelli" partigiani ed i nazi-fascisti divennero sempre più numerosi e frequenti e diversi furono i morti e i feriti da entrambe la parti e come sempre accade nelle guerre fratricide, troppe volte l'odio rimarcato divenne più profondo e cattivo che non contro un nemico sconosciuto, proprio perché rivolto verso persone conosciute o vicine. Le azioni di sabotaggio da una parte e di inevitabile e dura rappresaglia dall'altra si caricarono inevitabilmente di disprezzo per la vita degli avversari che molte volte potevano essere dei conoscenti, dei compaesani, degli amici d'infanzia e forse anche parenti. Molti furono gli episodi che, nei restanti due lunghissimi anni di occupazione e di guerra partigiana, meriterebbero di essere raccontati in questa breve storia della Valle Camonica: ne ricordo solo alcuni che hanno lasciato un segno profondo per il modo in cui si svolsero i fatti o vennero tramandati nel racconto dei presenti e dei superstiti. Verso la fine del 1943 alle forze partigiane camune giunse la notizia che Ferruccio Lorenzini, l'organizzatore ed il comandante del primo nucleo partigiano "Fiamme Verdi" della Valle Camonica era stato catturato dai fascisti. La cronaca di quell'arresto divenne quasi leggenda tra i tanti ricordi di quei terribili anni. La generosità e la cavalleria, tradizionali sentimenti radicati nel profondo dell'animo per un ufficiale del Regio Esercito, come era il Lorenzini, furono le cause dirette che portarono alla cattura e che persero il colonnello Ferruccio e i suoi uomini. La mattina dell'8 dicembre (1943), due militari fascisti erano stati catturati dai partigiani e avevano, dal Lorenzini, avuto salva la vita ma, invece di mantenere la solenne promessa del silenzio, a cui si erano impegnati, indicarono immediatamente ai comandi repubblichini della zona, la posizione del gruppo, che, sebbene avvertito tempestivamente, venne circondato in località San Giovanni Pratolongo di Terzano proprio mentre si accingeva a trasferirsi altrove. Tutti i partigiani caddero prigionieri e il Lorenzini venne condotto a Darfo, sede del comando fascista della zona, dove fu pubblicamente bastonato insieme ad alcuni dei suoi, poi, legato mani e piedi, fu messo alla berlina sulla pubblica piazza e quindi portato dal Municipio alla Casa del Fascio tra i pesanti insulti ed i colpi inferti dai fascisti locali, uomini e donne. Condotto a Brescia, il 31 dicembre 1943, il colonnello Ferruccio Lorenzini venne fucilato. Anche in Valle Camonica il 1944 si aprì con continue e pesanti azioni di polizia condotte da contingenti di squadre di fascisti che operavano nel solco dell'Oglio e sull'alto Sebino.

Proclama
delle forze armate germaniche
in Italia
Molte volte queste azioni erano la diretta risposta di altre azioni messe in campo dai Partigiani che compivano razzie e anche spogliazioni, specie della inerme popolazione (presa tra due fuochi!), per potersi "mantenere" alla macchia. Improvvisi rastrellamenti erano condotti, specie nottetempo o alle prime luci dell'alba, e molti paesi vennero frugati minuziosamente casa per casa, stalla per stalla, fienile per fienile. Chi cercava di fuggire ai sempre più severi controlli e veniva raggiunto o catturato, molte volte ucciso sul posto con colpi di arma da fuoco. L'ordine impartito da una circolare del nuovo ministero degli interni della RSI era quello di sparare a vista su chi scappava o anche solo dimostrava terrore o timore durante le perquisizioni o i fermi di polizia. Spesso, seguendo ciecamente questa direttiva, vennero colpite delle persone innocenti e che nulla avevano a che fare con i "ribelli" partigiani o con il nemico. A Verona, il 16 marzo (1944) venne fucilato Peppino Pelosi che era stato catturato, durante dei rastrellamenti, sulle montagne sopra Lovere ed era stato in un primo momento tradotto nelle carceri di Brescia. In aprile, a Berzo Inferiore in Val Grigna, una normale azione di controllo del territorio, durante le ore notturne, da parte di un pattuglione fascista, si trasformò in un grave episodio che sfociò in una vera e propria tragedia: alcuni ragazzini che erano di ritorno da una veglia in una stalla del paese furono sorpresi per strada dalla milizia fascista che ordinò loro di fermarsi e di farsi riconoscere. I ragazzi, tutti in giovanissima età, certamente terrorizzati, si diedero alla fuga per le vie del paese ma vennero inseguiti dai miliziani che, forse sospettando si trattasse dei "ribelli" che avevano compiuto alcuni giorni prima della azioni di sabotaggio sopra Bienno, aprirono il fuoco con i mitra. Due ragazzi vennero colpiti e morirono immediatamente mentre un terzo, che cercava di fuggire arrampicandosi su una pianta fu crivellato da una lunga scarica di mitra. Sul suo corpo furono contate ben diciotto ferite prodotte dai colpi delle pallottole. La lotta aperta contro i "partigiani" vide anche la formazione di "squadre speciali" come quella composta da alcuni fascisti bresciani (perciò non conosciuti in valle), che, fingendosi ribelli e partigiani, avevano organizzato un eterogeneo gruppo che girando sui monti e per i paesi cercavano di trarre in inganno abitanti, contadini, pastori e mandriani, che poi, in alcuni casi, dovettero pagare con la vita la loro generosa ma ingenua o incauta offerta di aiuto e cibo (o anche il fatto che fossero obbligati con la forza o sotto la minaccia delle armi, a fornire aiuto). Anche alcuni sacerdoti si erano schierati dalla parte dei Partigiani e il 20 maggio, un gruppo di "repubblichini", sporchi e malvestiti allo scopo di farsi credere partigiani, si presentò al parroco di Zazza (frazione di Malonno), don Battista Picelli, chiedendo aiuto e riparo. Il sacerdote credendo che si trattasse di poveri sbandati affamati e stanchi, si prestò subito a sfamarli con quel poco di vivande che aveva in casa, incoraggiandoli e facendo loro intendere di avere sentimenti tutt'altro che benevoli verso i nazi-fascisti. Quando don Picelli, avendo tardivamente capito con chi realmente aveva a che fare e intuendo l'amara verità, cercò di fuggire attraverso i campi alcune raffiche di mitra lo colpirono alla schiena ed il prete spirò ai margini di un piccolo campo di grano che era da confine tra la chiesa ed il piccolo cimitero. Molto scalpore destò questo sanguinoso episodio poiché la popolazione locale era ancora legatissima al clero, che in molti casi restava l'unico punto di riferimento in un periodo molto tribolato. Anche i Partigiani, dal canto loro, misero in campo alcune azioni (diverse anche non comprese o condivise o addirittura contro la popolazione, timorosa poi delle conseguenze) contro i nazi-fascisti e in alcuni casi sabotarono tralicci di linee elettriche, organizzarono assalti ad alcuni magazzini militari e polveriere e a depositi di armi e attaccarono perfino alcune caserme di miliziani uccidendo italiani fascisti e militari o poliziotti tedeschi. Le risposte dei Repubblichini e dei loro alleati germanici erano di solito immediate, e le rappresaglie divennero sempre più ostinate, dure, crudeli e pesanti specialmente per l'inerme e incolpevole popolazione. La spirale dell'odio si accrebbe, come un fatto specifico incontrollabile (e che nessuno, da entrambe le parti, volontariamente o meno voleva e poteva più limitare o fermare) e la contrapposizione si fece via via più spietata e in molti casi infame e infamante. Forse il fatto di sangue più emblematico della situazione che si era creata in Valle Camonica (ma lo stesso stato di vera e propria "guerra civile" era diffuso ovunque e non solo in questa valle) fu quello che accadde il 3 luglio 1944 a Cevo, all'imbocco della valle di Saviore. La cronaca di quell'episodio può essere rivissuta con chiarezza nel racconto di un testimone che vi riporto nel integrale come scritto dal Lanzetti: "Comincia a far chiaro, saranno forse le tre e mezzo. In paese c'è un morto: il partigiano Monella..., caduto nel tentativo di disarmare i fascisti dislocati alla centrale elettrica di Isola. Lo vegliano a turno i diciassette compagni della 54° brigata "Garibaldi...". D'improvviso, le sentinelle disposte sulla valle danno l'allarme. E' un reggimento (di camicie nere) che avanza da più direzioni per accerchiare il paese: una morsa che si strinse su ordini prestabiliti, piste precise, indicazioni di spie. I "garibaldini" piazzano un fucile mitragliatore in cima alle case, vicino alla pineta, e un altro più in basso: così controllano la strada principale, dominano la situazione. Fino alle 7, niente da fare per le baldanzose truppe salite ad assediare Cevo... Alle 9 e mezzo, i garibaldini...si aprono un breccia in mezzo alla sparatoria che ormai sconquassa il centro del paese...Cevo è in preda alle fiamme provocate dagli scoppi sempre più spessi e furiosi". Poi i fascisti fanno passare le case ad una ad una. S'imbattono in Cesarino Monella e lo uccidono sul posto; vedono aprirsi l'uscio di una baita, vi sparano dentro ed ammazzano Francesco Biondi; Giacomo Monella si precipita giù in mezzo agli orti, verso la strada di sotto, ma una raffica di mitra lo raggiunge ed uccide. Il giovane Giovanni Scolari (18 anni) è preso e condotto "in giro fino a Saviore con un cartello derisorio sulla schiena". Legato ad una sedia, viene ucciso e fatto rotolare giù per il prato. Domenico Polonioli, ferito ad una gamba ed alla schiena, preferisce suicidarsi anzichè cadere nella mani delle camicie nere. E quando la furia fascista cessa d'imperversare, Cevo appare irriconoscibile: 151 case sono completamente distrutte ed altre 48 rovinate; 165 famiglie vivono ai margini della pineta in rifugi di fortuna; 800 abitanti su 1000 sono senza tetto." Un altro duro colpo venne inferto ai partigiani camuni dalle truppe di occupazione germaniche in quel caldissimo mese di luglio: Antonio Lorenzetti di Artogne, uno delle più note fiamme verdi camune, era stato sorpreso da un plotone di soldati tedeschi che erano in perlustrazione, circondato, resistette coraggiosamente a lungo al fuoco dell'avversario, finchè, ferito gravemente ad una gamba e impossibilitato a fuggire, fu catturato. I Fascisti pretesero dai Tedeschi la sua consegna e subito dopo lo portarono nella "Casa del Fascio" di Darfo, dove venne fucilato. Il 4 agosto (1944) Antonio Schivardi, nota medaglia d'oro al valore militare, uno dei più rispettati e seguiti comandanti partigiani che agivano in alta Valle Camonica, con alcuni compagni, si era posto in osservazione a controllo della strada che da Edolo saliva verso il passo dell'Aprica nei pressi della chiesa di Santicolo posta ai margini dell'abitato. Su questa importante arteria che collegava la Valle Camonica con la Valtellina e la vicina Svizzera transitavano spesso colonne o mezzi tedeschi e anche quel giorno tre macchine con a bordo alcuni sottufficiali e soldati germanici stavano salendo verso il passo. I partigiani, armi in pugno, bloccarono il convoglio ma, mentre stavano disarmando gli occupanti delle vetture, all'improvviso e senza che potesse essere avvistato prima, sopraggiunse un contingente auto trasportato composto da diversi militari germanici che immediatamente, intuita la situazione, aprirono un violento fuoco di fucileria e di armi automatiche. Allora lo Schivardi, visto che la situazione si stava facendo oltremodo pericolosa e, constatata la notevole differenza di potenza di fuoco tra i Partigiani e i Tedeschi e che questo scontro poteva trasformarsi in una inutile strage per suoi uomini, diede ordine che il suo gruppo si sganciasse, portando con loro un maresciallo tedesco che era stato fatto prigioniero, nell'azione di poco prima. Lui invece, coraggiosamente, rimase deliberatamente solo a copertura degli altri cercando un riparo e aprendo un nutrito fuoco finchè finì tutte le munizioni. A quel punto i soldati tedeschi, avvicinandosi cautamente all'inerme e indifeso Schivardi, dopo essersi accertati che non aveva più modo di difendersi, freddamente, senza alcuna pietà, lo colpirono e lo raggiunsero ripetutamente con raffiche di armi automatiche. Nel settembre di quell'interminabile 1944, alcuni gruppi organizzati di Partigiani che avevano il loro campo d'operatività in alta Valle Camonica, con un'azione che fece molto clamore e che ricalcava fatti simili che erano segnalati in altre vallate alpine (Piemontesi e Lombarde), scacciarono i funzionari del fascio ed instaurarono un governo provvisorio basato sui principi fondamentali della democrazia. A Ponte di Legno, dopo aver allontanato il Podestà fascista e i suoi uomini, vennero riuniti tutti i capifamiglia e si procedette alla elezione del sindaco e di una giunta comunale. Poco dopo negli altri più importanti centri della zona, ad Incudine, a Vezza d'Oglio, a Vione ed in altri comuni, con lo stesso sistema, vennero elette le nuove amministrazioni. Alcuni Partigiani, i politicamente più impegnati e preparati, vennero incaricati di spiegare alla gente come si dovevano svolgere e quali erano le regole per le elezioni in regime di democrazia: moltissimi Camuni non ricordavano certo più, dopo un ventennio di dittatura, come un processo democratico e popolare, come le elezioni dirette, fosse un fatto fondamentale e significativo per sentirsi uomini liberi. Quasi contemporaneamente a questi fatti, in bassa Valle Camonica, un altro tra i più noti e stimati partigiani camuni, Luigi Ercoli di Bienno, fu catturato dalle "brigate nere": venne arrestato e immediatamente trasferito, sotto forte scorta, a Brescia dove fu rinchiuso nelle carceri giudiziarie. In quei tetri locali venne sottoposto, per giorni, a terribili torture e a lunghi interrogatori perché rivelasse i nomi dei compagni di lotta partigiana in terra camuna e i suoi contatti con le altre squadre operanti nelle altre vallate bresciane e bergamasche. Nulla di importante venne raccontato ai suoi aguzzini italiani e tedeschi ed Ercoli, prostrato nel corpo per le percosse e nell'animo per le umiliazioni psicofisiche, venne trasferito nel famigerato campo di concentramento di Melk (Germania) dove, poco dopo, morì anche a causa della fame, del freddo e dei postumi delle torture. Un'altra pesante rappresaglia fascista avvenne verso la fine dell'anno sull'alto Sebino: nei pressi del paese di Corti (ora frazione di Costa Volpino mentre allora era comune di Lovere) alcuni volontari italiani appartenenti alle "brigate nere", per vendicare un'imboscata organizzata da un gruppo locale di partigiani, in cui erano rimasti feriti in modo grave due loro camerati, che erano stati ricoverati all'ospedale di Lovere, dopo avere fatto sgomberare tutte le abitazioni, incendiarono parecchie case nelle piccole frazioni di San Antonio e di San Rocco: circa trecento persone furono così private di ogni bene e rimasero completamente sul lastrico. Il maestro Giacomo Cappellini, molto noto in valle anche prima della guerra, si era dato alla macchia con altri giovani del suo paese e, il 21 gennaio 1945, a Laveno, in valle di Lozio, fu sorpreso da una pattuglia di miliziani fascisti che stavano "battendo" la zona. Si accese un fitto anche se breve conflitto a fuoco e, il Cappellini, durante la fase di sganciamento dal nemico e in una manovra di copertura per portare a buon fine una ritirata verso un luogo più sicuro, rimase ferito gravemente e fu impossibilitato a fuggire. Riuscì comunque, con la sua resistenza, a permettere che un suo compagno si mettesse in salvo ma venne catturato e fu portato nello stesso carcere che, alla fine del 1943, era stato il luogo di pena del colonnello Ferruccio Lorenzini. Anche lui subirà numerosi interrogatori e molte violenze e il 24 marzo, senza aver nulla rivelato ai suoi aguzzini, venne fucilato sull'orlo di quella grande trincea che fu poi chiamata "la Fossa dei Martiri". Ma, malgrado i duri colpi sofferti, la lotta dei "ribelli" continuava e anzi continuamente si intensificava anche a causa della situazione generale dell'evoluzione del conflitto tra le forze armate in campo che vedevano i nazi-fascisti ormai in una situazione di grandi difficoltà logistiche e di "possesso" del territorio, che diveniva sempre più problematico. Ormai diversi gruppi di partigiani, sempre più numerosi, dato che in molti ormai, fiutando l'aria che tirava, volevano "saltare sul carro del vincitore", controllavano apertamente vaste porzioni di territorio e avevano impiantato in modo capillare dei comandi e presidi in cui venivano programmate e dirette operazioni di sabotaggio o azioni di stampo militare. Uno di questi siti "liberati" era l'importante passo del Mortirolo e gran parte delle montagne che gli facevano da contorno. Queste bellissime vette camuno-valtellinesi e il valico erano già passati alla storia, nel medioevo, per le epiche gesta dei Longobardi e dei Franchi di Carlo Magno poi per il passaggio dei Lanzi(chenecchi) e, ancora, verso la fine del XVIII secolo, per una furiosa battaglia tra i francesi di Napoleone e gli austriaci e poi per tanti altri scontri armati. Questa zona, piuttosto impervia ma anche di notevole importanza strategica perché collegava direttamente e nel modo più rapido (con il vicino e parallelo passo dell'Aprica), la Valle Camonica con la Valtellina, era divenuta un rifugio importante di molti "ribelli" ed era sotto il completo controllo di alcuni e ben armati gruppi di partigiani che, già da un paio di mesi, impedivano qualsiasi passaggio alle truppe repubblichine o tedesche. In febbraio (1945), un nutrito contingente di fascisti appartenenti alle brigate nere, sostenute anche da un reparto di soldati e da un gruppo di poliziotti tedeschi, nel tentativo di sgomberare i Partigiani dal monte e liberare il passo per permettere il transito e/o una eventuale fuga verso la Svizzera (un fuga che, anche se non apertamente, era nei piani di molti, specie gli alti gradi, tra le file dei fascisti e dei nazisti), diedero l'assalto alla zona con l'intento di sloggiare i "ribelli" che, in posizioni strategiche, avevano realizzato dei punti fortificati. I Partigiani, avvisati da alcuni informatori, delle manovre che si stavano preparando contro di loro, non si lasciarono cogliere di sorpresa e, equipaggiati con armi automatiche e anche un cannoncino da campagna, presero d'infilata le truppe nemiche. Ad essere colti di sorpresa dalla nutrita, precisa e, certamente inaspettata reazione furono i Fascisti e i Tedeschi che, già dai primi colpi, sbandandosi, cercarono riparo al fitto fuoco degli avversari, in alcune baite e dietro mucchi di neve, ma a colpi di cannoncino vennero snidati dai provvisori rifugi e bersagliati con estrema decisione e precisione. Non potendo reggere oltre il fuoco dei Partigiani che erano in una situazione logistica favorevole, vi fu una ritirata verso il fondovalle e questo primo tentativo, delle camicie nere, dunque andò a vuoto. Gli attaccanti impacciati dalle neve alta, che ricopriva ogni sentiero, dal freddo intenso e dai pesanti e caldi ma ingombranti pastrani scuri che spiccavano sulla coltre bianca, dovettero battere in precipitosa fuga, lasciando sul terreno parecchi morti e feriti. Il giorno dopo, sia i Tedeschi che i Fascisti, ritentarono la salita verso il passo e riuscirono, pur con grandi difficoltà e a duro prezzo, a conquistare buona parte dello spazio che li separava dalle linee fortificate dei partigiani, tanto che lo scontro questa volta si svolse a distanza davvero ravvicinata. La lotta fu particolarmente cruenta e violenta e ad un certo punto solo poche decine di metri separavano, in alcuni tratti, le "Fiamme Verdi" dai "Repubblichini" e Nazisti. Prodotto il massimo sforzo, i Fascisti e i Tedeschi si dovettero però arrestare davanti allo sbarramento di trincee che si dimostrarono insuperabili e che i Partigiani avevano scavato ed eretto intorno alle "baite alte", quelle più vicine al passo e si videro perciò costretti, nuovamente, a lasciare il campo e tornare verso Monno. Nel silenzio che era subentrato, i superstiti potevano osservare come sulla candida neve, sporca di sangue e annerita dal fumo dei colpi, giacevano numerosi corpi di militi senza vita e molto materiale: bombe, fucili e mitragliatrici, abbandonato nella fuga verso valle. Dopo questa pesante sconfitta gli uomini con la camicia nera e i loro alleati germanici si erano ritirati, in attesa di rinforzi, in alcuni paesi del fondo valle (Monno, Incudine, Edolo ecc) e a Corteno e alcuni giorni dopo, durante un rastrellamento riuscirono a catturare, in casa sua, Giovanni Venturini soprannominato Tambìa. I Fascisti, furiosi per lo smacco subito e accecati dall'odio, forse avvertiti da una delazione, lo accusarono di essere un sostenitore dei partigiani e perquisendo la casa ritrovarono numerose lettere e alcuni manifestini inneggianti alla libertà dall'oppressione nazi-fascista. Portato nella colonia "Alpina", che era stata adibita a sede di comando fascista, fu sottoposto a torture e a numerose sevizie di ogni genere: pugni e calci per ore, in più gli vennero applicate delle forti scosse di corrente elettrica in più parti del corpo: portato poi in solaio, fu appeso ad una trave e ripetutamente bastonato. Vista la sua grande resistenza gli bruciarono i piedi accendendogli fra le dita del cotone imbevuto di benzina e l'11 aprile, ormai ridotto a un povero essere semi incosciente fu fucilato contro il muro del Cimitero di Mu. In quei giorni era intanto giunto in alta Valle Camonica, appositamente comandato per ritentare l'assalto al Mortirolo, un grosso contingente formato da circa duemila nazi-fascisti. A difesa del passo e del colle erano arroccati, ben armati e in buone trincee e postazioni fortificate realizzate in posizioni dominanti, circa duecentocinquanta partigiani appartenenti alla brigata "Fiamme Verdi". I nazi-fascisti, sempre più pressati dalla loro difficile situazione generale, che li vedeva ovunque in ritirata davanti alle truppe degli Alleati e alle continue azioni di disturbo dei Partigiani, erano dunque necessitati, giocoforza, alla conquista del passo per poter avere una via di fuga aperta e poter rendere operativo lo sganciamento delle loro forze che ormai erano in rotta verso la Valtellina e la vicina Svizzera. Alle ore 6.00 del mattino del 19 aprile 1945 (solamente sei giorni prima della conclusione ufficiale della guerra !) iniziò una violentissima battaglia, tra le più pesanti che le pendici di quel monte ebbero a testimoniare. Vi fu dapprima un lungo e intenso bombardamento della sommità del Mortirolo, con colpi di mortaio sparati dagli obici tedeschi di grosso calibro che erano stati piazzati nei pressi di Monno, alle pendici del monte e sui primi contrafforti della strada che portava al passo.

Passo del Mortirolo:
trincee partigiane durante
la battaglia del 19 aprile 1945
Il fuoco venne specialmente concentrato, per alcune ore, su un piccolo rifugio, che era stato localizzato nei pressi del valico e dove si riteneva (ed era vero) che vi fosse la sede logistica del comando dei Partigiani. Poi verso mezzogiorno iniziò l'attacco in forze. La truppe nazi-fasciste procedettero verso il passo e, attraversando gli ampi prati, attaccarono su un fronte piuttosto ampio. La battaglia, suddivisa in diversi singoli episodi, proseguì violenta per tutto il pomeriggio e si protrasse ben oltre l'imbrunire. Al calare dell'oscurità i Repubblichini e i Tedeschi, con l'aiuto di una cortina fumogena e senza poter recuperare i loro numerosi feriti, ripresero la via del fondovalle, battuti e ancora sconfitti. Malgrado il grande spiegamento di forze e (va riconosciuto) il fermo comportamento sul campo delle truppe nazi-fasciste, anche questa volta ebbero la meglio i Partigiani: il passo rimase in loro mano e inviolato, inaccessibile dunque per quelle colonne in ritirata che stazionavano nel fondovalle e che a quel punto dovettero trovare altre strade e sganciarsi da una situazione di stallo, proseguendo o verso l'Aprica o il Tonale. Questo fu l'ultimo episodio di notevole portata militare, in terra camuna, di una guerra che stava ormai rapidamente volgendo al termine: le truppe nazi fasciste erano sconfitte ovunque e lunghissime colonne di soldati tedeschi e di repubblichini o collaborazionisti sbandati, risalivano in rapida fuga le strade della Valle Camonica per portarsi, transitando dal passo del Tonale, verso il Trentino e cercare di raggiungere l'Austria e la Germania. I fascisti locali, ormai ricercati e braccati, cercarono in tutti i modi di nascondersi e buttate le nere divise, di cui fino a pochi giorni prima erano fieramente orgogliosi, in molti tentarono la fuga in quei boschi, o nascondendosi in quelle soffitte e in quelle scure cantine che solo fino a qualche ora prima erano stati rifugio dei "ribelli" partigiani che ora, baldanzosi e festeggianti vincitori, sfilavano apertamente nelle strade dei paesi "liberati".

10.02.1947
Trattato di Parigi:
perdite territoriali italiane
Come sempre capita nelle ore tragiche della resa dei conti molte pagine buie in quei giorni furono scritte versando molto sangue: vendette furono compiute e in molti casi venne fatta giustizia sommaria di chi aveva malamente agito in nome di ideali, politiche e convinzioni perdenti. Una data precisa fissò il termine della "Seconda Guerra Mondiale" per l'Italia: il 25 aprile 1945. Da quell'importante ed essenziale momento storico, forse non completamente compreso dai contemporanei, che si divisero subito in molte fazioni politiche diverse e anche contrapposte, cominciò per tutti un durissimo dovere e un immane compito: essere finalmente, dopo tanti anni, cittadini liberi di agire secondo le proprie capacità, le proprie aspirazioni e le proprie idee politiche: si viveva la Democrazia. Un insieme di grandi e profondi concetti che, in gran parte, vennero raccolti e proposti in una nuova Carta Costituzionale che, redatta in quel preciso momento di evoluzione politica, rispecchiava le tendenze (politiche e sociali) di tutti i presenti in quella assise e che forse (anzi quasi sicuramente) negli anni successivi venne, più volte, in parte tradita. La guerra sul suolo della Patria era finita ma in molti paesi stranieri vi erano ancora centinaia di migliaia di Italiani (e migliaia di camuni) prigionieri o internati. Alcuni rientrarono a casa nei mesi successivi, altri anche dopo un anno o addirittura due anni, ma tanti non fecero mai più ritorno. Nel giugno del 2010, riprendendo una accurata ricerca, durata diversi anni, è stato pubblicato, e riportato integralmente anche da Radio Valle Camonica, un lungo elenco di nomi anche di Camuni (e Sebini) che erano morti nei campi di lavoro o erano stati deportati e che non erano sopravvissuti alla durezza di quei luoghi. In molte famiglie, che non avevano più avuto notizie da più di 60 anni, si è appreso così dove fossero sepolti quelli che non erano più tornati a casa: ora chi lo vorrà potrà, anche in futuro, depositare un fiore sulla tomba di un parente o di un compaesano, che si è spento lontano dagli affetti e dalla sua terra natia. Vorrei concludere, come avevo già fatto nelle edizioni precedenti, con il moto che ho adottato a contorno dei miei stemmi nobiliari: "Historia victoribus sempre scribatur": "La Storia è sempre scritta dai vincitori". Una verità assoluta ! Purtroppo anche tra i vincitori si annidano spesso molti uomini piccoli e demagoghi, servi di preconcetti e idee del passato, innamorati della prosopopea del momento e dei grandi e vuoti discorsi, che sono solo un grave fardello per ogni società civile in evoluzione. Ma la Storia continua e, la nostra storia, quella della nostra Valle Camonica, potrà ancora essere fonte di studi, ricerche e anche di memorie che non si devono mai cancellare ma che devono essere da insegnamento e da stimolo solo a migliorarsi e per migliorare una società che deve essere amata ma soprattutto rispettata.



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