Il 476 d.C. è una data particolarmente significativa nella storia del mondo occidentale: a questa è, infatti, fissato (logicamente a posteriori e in modo del tutto empirico) il crollo ufficiale e la disgregazione dell'organizzazione statale dell'Impero Romano d'Occidente.
In realtà fu un processo abbastanza veloce (per la metrica della Storia) nelle sue fasi finali ma era già iniziato da almeno 150 anni con le varie, sanguinose e profonde crisi interne e con le varie lotte per il potere che devastarono e resero instabili i più alti vertici del più vasto e organizzato Impero che la storia avesse visto prosperare fino a quel momento nell'antico continente.
In quella data si pone anche, logicamente, la fine "ufficiosa" della dominazione e della presenza romana in Valle Camonica.
In brevissimo tempo, nel volgere solo di un paio di decenni, tutta la complessa struttura verticistica e organizzativa dell'Impero, che era durata (anche se più volte modificata) per quasi 500 anni, i suoi scambi e i suoi anche profondi vincoli socio economici si dissolsero.
La Valle Camonica però (forse !) aveva già dovuto subire una invasione barbarica: nel 451 Attila (*), Re degli Unni, secondo alcuni storici, anche se non è provato da dati di fatto e coincidenze su date e spostamenti del popolo Unno, era penetrato in valle e aveva depredato e distrutto molti piccoli paesi tra cui anche Cividate che venne completamente rasa al suolo e bruciata.
ATTILA: (cira 400 - 453)
re degli Unni. Nel 441 scatenò un'offensiva contro l'Impero d'Oriente,
conclusasi solo nel 447 con un trattato di pace umiliante per Teodosio II.
Onoria, sorella di Valentiniano III Imperatore di Occidente, gli offrì
la sua mano, ma questo non impedì ad Attila nel 451 di invadere
le Gallie distruggendo le città che incontrò (nell'attuale Belgio) e
fermandosi solo di fronte alle truppe del generale romano
Ezio che lo sconfisse nella battaglia dei Campi Catalaunici
(Chalons-sur-Marne, 451).
Ritiratosi in Pannonia, da lì attraversò le Alpi Giulie penetrò in Italia
devastando Aquileia, Milano e Pavia. Giunto (452) sul fiume Mincio
si fermò (secondo una leggenda cristiana convinto a ritirarsi da
Papa Leone I, in realtà a causa delle epidemie che decimavano
il suo esercito) e tornò in Pannonia, dove morì poco dopo.
Attila non costituì mai un vero e proprio regno, spinto nelle sue imprese
militari da finalità di saccheggio e non di conquista (E' stata solo la
tradizione cristiana del secolo successivo che ce lo ha tramandato
come "il flagello di Dio").
Le orde unne si dispersero infatti dopo la sua morte.
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Nel nord Italia sotto il re Odoacre * (476-493) che, capo barbaro, aveva raggiunto i più alti gradi di ufficiale della Guardia dell'Imperatore, aveva deposto l'ultimo Imperatore romano Romolo Augustolo, la concezione dello Stato (inteso come una struttura statale centralistica) venne disgregata e si dissolse completamente e ridivenne quella, antichissima (che forse era stata già alla base dell'ancestrale società del popolo dei Camuni e più in generale dei Reti nelle valli alpine), di un organismo familiare-tribale con forti legami di stirpe, di clan e di sangue, fondata sulle consuetudini imposte dalle tradizioni di quei popoli che giungevano dalle lontane terre del centro e del nord/est Europeo.
Dai nuovi conquistatori venne imposto, con la forza, l'ideale nordico e barbarico della vita, quello considerato, da sempre, ordine fondamentale delle regole sociali nel mondo dei Germani che spazzarono via l'universo romano.
Un ordinamento sociale e politico che si affermò, nelle terre conquistate e sottomesse, con quella virulenza che era regola di vita per quelle tribù che idealizzavano la forza bruta e l'assoluto disprezzo per la vita.
ODOACRE: capo germanico (n.ca 430 - Ravenna 493):
ufficiale della guardia imperiale romana dal 472, al comando
delle milizie barbariche (Eruli, Sciti, Rugi e Turcilingi) depose
nel 476 l'ultimo imbelle Imperatore romano Romolo Augustolo
e mise di fatto fine all'Impero d'Occidente, proclamandosi
governatore in Italia per conto dell'Imperatore d'Oriente
Zenone, che ne riconobbe l'autorità. Occupò la Sicilia e la
Dalmazia, strinse buoni rapporti coi Visigoti, finchè il suo
potere non spinse Zenone a mandargli contro il re degli ostrogoti
Teodorico (489), che lo uccise dopo averlo assediato
per tre anni a Ravenna.
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Come nelle altre vallate alpine e in molte zone decentrate rispetto ai grandi flussi migratori, le varie strutture sociali, in Valle Camonica, si mantennero parzialmente in vita solo aggrappandosi agli usi e ai costumi dei luoghi di origine che, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, avevano avuto forti influenze dallo stile di vita dell'Impero.
Un poco alla volta le popolazioni, senza le direttive e le leggi centraliste a cui erano ormai soggette da quasi cinque secoli, si diedero, forzatamente e autonomamente, delle forme di governo locale che ricalcavano in parte il mondo e gli stati sociali di quei popoli nordici che, transitando lungo le strade romane, lasciavano dietro di se distruzione, morte, carestia, schiavitù e anche un modo di vivere, essere, pensare e valutare la vita che poco avevano a che
fare con quello stile greco-romano che era stato alla base della società Europea e Mediterranea dell'ultimo mezzo millennio.
Anche la Valle Camonica vide, in breve tempo, sconvolta la propria organizzazione societaria.
In alcune plaghe o paesi, che avevano più di altri subìto e accolto a fondo la colonizzazione romana (di solito quelli più prossimi o a cavallo della via Valeriana, che fungeva da collegamento e linfa vitale per scambi e movimenti) il cambiamento fu radicale e pesantissimo.
Tutta la struttura socio-economica locale venne azzerata poiché si era basata, fino alla decadenza e al disfacimento dell'Impero Romano, su di una economia primaria mista di pastorizia, coltivazione (non molto estensiva) del suolo, estrazione e battitura del ferro e delle ferrarezze e lavorazione della lana che portavano regolarmente a contatti e scambi frequenti con le altre vallate, province e regioni.
Rimase ancora a lungo (e non poteva essere diversamente) però il ricordo, anche se sempre più labile, della dominazione romana come nella toponomastica valligiana che rileva alcuni interessanti contatti con l'Impero dissolto, come nell'antica frazione di Corna di Darfo dove la contrada dei "Massi" (dove questo autore ha vissuto per un decennio), e in cui transitava certamente uno dei rami principali della via Valeriana che giungeva da Rogno e Anfurro, rende ancora oggi testimonianza che, forse ancora nella prima età barbarica, qualcosa dell'antica consolidata organizzazione romana della proprietà e del lavoro delle terre era rimasto: "massae", in età romana, erano, infatti, chiamati gli insiemi di domini rurali, le ville con latifondi che nel successivo periodo longobardo prenderanno il nome di "Corti" e talora anche di "Domus cultae". Fanno fede di ciò le denominazioni di Corti di Rogno o Corteno ed altri borghi e frazioni che portano ancora oggi la traccia profonda di questa toponomastica tradizionale nel loro nome.
Odoacre, che ebbe una importanza fondamentale per affermare la supremazia di questi concetti barbarici sullo Jus Romano, creò in Italia uno Stato che in pratica non aveva alcun fondamento di diritto: erano in vigore solo gli usi, le costumanze, le leggi ancestrali e di maniera di un popolo
dominato dalla classe dei guerrieri, che facevano della forza fisica la basilare sostanza della giustizia.
Questa situazione, che, di fatto, si generalizzò immediatamente nelle terre sottoposte alla conquista dei Goti (o Ostrogoti), era fondamentalmente estranea alle tradizioni che avevano regolato, fino allora, la vita sociale ed economica delle Genti al di qua delle Alpi e che più di altre avevano "assorbito" e fatto propria la cultura romana.
Unico appiglio a quel mondo che andava velocemente a scomparire e che restava ancora come esempio tradizionale di società organizzata, rimaneva solo l'aggregazione attorno a ciò che rimaneva delle antiche curie romane o attorno alle figure dei vescovi o dei sacerdoti, unici riferimenti (o figure) presenti, reali e sopravvissuti, che si potevano contrapporre a quelli del guerriero e del combattente.
L'organizzazione plurisecolare romana, che si basava quasi ovunque (fuori dalla grandi città) in "pagi" e "massae" fu comunque cancellata completamente dalle incontenibili, periodiche e ricorrenti invasioni dei popoli
del nord Europa o della lontana Asia da cui erano scacciati e compressi da altri popoli che premevano verso terre più fertili.
I contraccolpi (specie sulle non particolarmente forti società montane) furono radicali: nelle zone periferiche, come la Valle Camonica, in un lasso di tempo brevissimo, in pratica le strutture di base della società, si dissolsero e semplicemente scomparvero nella loro funzione economica e nella loro organizzazione del lavoro e nel loro pur semplice sistema sociale.
Senza organizzazione centralizzata e senza linee precise di una qualsiasi struttura statale, anche in modo embrionale, e gestita da regole consolidate e riconosciute, repentinamente si tornò ad una sorta di economia primitiva nella quale predominava la pastorizia.
Nel 568, un altro popolo guerriero, proveniente dalle fredde e inospitali lande del centro Europa, si affacciò alle calde e ancora ricche terre italiche: i Longobardi guidati da Alboino (*).
ALBOINO: Re dei Longobardi (morto a Verona nel 502):
Sconfisse i Gepidi, uccidendone il Re Cunimondo, di cui sposò
la figlia Rosamunta. Nel 568, con tutto il suo popolo, partendo
dalla Pannonia , scese in Italia e conquistò il Veneto per poi passare
a dominare Milano e Pavia. Fondo uno stato di forte centralismo,
con al vertice la casta militare longobarda, che pose fine all'antica
unità territoriale della penisola
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Questi guerrieri, provenienti dalla Pannonia (attuale Ungheria), nella loro travolgente calata in Italia, passando dalla Valle Camonica, dilagarono nella grande pianura e conquistarono anche Brescia e tutto il suo territorio.
Il loro sistema sociale, che durò poi per più di 200 anni, fu instaurato verso la fine del sesto secolo e, copiato in gran parte da quelli in vigore nelle varie terre che, nella loro invasione, avevano man mano attraversato e conquistato (per questo erano molto comuni usanze e nomi anche di derivazione nordica o latina), venne imposto sulle terre conquistate.
Il Regno Longobardo in Italia fu suddiviso il 36 Ducati e la Valle Camonica, la cui capitale rimase sempre a Cividate, fu infeudata ad un Duca.
Non è certo che i Duchi camuni (forse due o tre in valle, a Cividate ed Edolo, secondo alcuni studiosi) dipendessero dal Duca di Brescia o fossero completamente autonomi e gestissero il territorio senza fare riferimento alla città (allora molto lontana non solo politicamente ma anche fisicamente).
I Duchi camuni appartennero quasi tutti alla dinastia "Gisalbertina" cioè discendenti del primo Duca Gisalberto da Brescia.
Fu sotto il Longobardi che alcune terre camune, specie in bassa valle, furono anche infeudate all'antico Monastero di San Salvatore di Brescia.
Oltre ad un sistema feudale distinto in classi ben precise e distinte, tanto che i Longobardi ben difficilmente si "mischiavano" agli altri popoli sottomessi, la dominazione longobarda lasciò in valle anche dei termini che sono ancora nei dialetti locali: "pic" per "vetta o cima di montagna" o "grigna" per "torrente" o nei nomi di alcuni paesi come Buren, Nader, Bre, Besem, Fraine e Boer…
Nel 575 il condottiero alemanno Cremnichi alla testa del suo numeroso popolo transitò, proveniente dalla Valtellina, dalla valle di Corteno e scese a Edolo da dove, invece di dirigersi verso sud e Brescia o Bergamo, proseguì verso il passo del Tonale per raggiungere la Val di Non e portarsi nel cuore del Trentino.
La regina Teodolinda (*) (passata alla storia sia per il suo fervore cristiano
TEODOLINDA:
figlia di Garibaldo, Duca dei Bavari, sposò il
re longobardo Autari nel 589 e, rimasta vedova,
si risposò con il Duca Aginulfo nel 591, che divenne Re.
Di religione cattolica, collaborò con il Papa
Gregorio Magno, alla conversione al
cattolicesimo dei Longobardi.
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che per il suo proverbiale senso pratico negli affari) avrebbe fatto edificare intorno al 590, a Corteno, un monastero dedicato
a San Giovanni Battista e, da quest'importante istituzione religiosa, amministrava, tramite dei delegati, i suoi vastissimi possedimenti in Valtellina.
La situazione generale delle popolazioni valligiane non migliorò certo sotto questi nuovi padroni, anche perché rispetto alla precedente dominazione romana e poi Ostrogota, la conquista longobarda fece registrare su tutto l'arco alpino una pesante involuzione politico- economica-sociale che ridusse il tenore di vita alla pura sussistenza.
In breve vennero quasi completamente abbandonate le tradizionali e fonte di guadagno lavorazioni del ferro e della lana da esportazione: il commercio, a causa della mancanza di rapporti tra le varie valli e le città, subì un drastico e un continuo rallentamento tanto da scomparire quasi completamente: il denaro scomparve o rimase solo moneta di scambio nel suo valore in peso del metallo prezioso con cui era coniato, e il baratto in natura ridivenne la consuetudine nei rapporti economico-politici.
Alle importanti strade che i Romani avevano tracciato e mantenuto sempre in efficienza, non vennero più effettuate manutenzioni e migliorie, anzi in molti tratti vennero interrotte da crolli o cedimenti e per più di due secoli la valle (come le altre valli) rimase quasi isolata dal mondo esterno e racchiusa tra le proprie montagne.
Gli scambi, sia economici che culturali, erano ridottissimi (anche all'interno della stessa valle) e solo la presenza, se pur non molto radicata (erano ancora presenti vaste "sacche" di idolatria) di una fede cristiana comune, dava una certa continuità al territorio camuno.
Prevalevano comunque l'isolamento e i piccoli localismi che si esprimevano negli sparsi agglomerati di casupole o catapecchie o nei rustici pievatici intorno a cui si stringevano borghi o castellatici abitati da pochi (e semi selvaggi) nuclei di Camuni.
CARLO MAGNO: 742 - 814
Re di Neustria (758-814), Re di Borgogna (768-814), Re dei Franchi (774-814), Re dei Longobardi (774-814), Imperatore del Sacro Romano Impero (800-814). Figlio di Pipino il Breve e di Berta, figlia di Cariberto conte di Laon. Insieme ai genitori e al fratello Carlomanno, nel 754 fu insignito
dal Papa Stefano II del titolo di "patricius romanorum" che comportava compiti di difesa della città di Roma e che spettava tradizionalmente all'Esarca di Ravenna. Pipino designò Carlo re di Neustria nel 758 e di Borgogna nel 768 e instaurò l'usanza dei re Franchi di dividere il proprio regno tra i figli e attribuire loro il titolo di re. A Carlo toccarono l'Austrasia, la Frisia occidentale, l'Assia, la Franconia, la Turingia, la Neustria e parte dell'Aquitania. Pessimi furono i rapporti con il fratello, anche se la madre cercò di riconciliare i due figli facendo sposare Carlo con Ermengarda e Carlomanno con Gerberga figlie entrambe del re longobardo Desiderio. Alla morte di Carlomanno, Carlo si fece acclamare unico re dei Franchi e costrinse la vedova del fratello Gerberga a rifugirsi in Italia presso la corte del padre. L'inevitabile contrasto con i longobardi, motivato anche dal ripudio di Ermegarda, sfociò nell'invasione dell'Italia da parte di Carlo (773), quando Papa Stefano II invocò il suo intervento dopo che Desiderio aveva occupato i territori pontifici dall'Esarcato spingendosi fino a Viterbo. Carlo sconfisse i Longobardi alle Chiuse di Susa e assediò Pavia e Verona, dove si erano rifugiati Desiderio e suo figlio Adelchi, espugnandole nel 774. Si fece allora proclamare re d'Italia e, restituendo al Papa i territori che gli erano stati tolti dai Longobardi, pose le basi per la costituzione di un forte Stato della Chiesa al centro della penisola. Non realizzò tuttavia l'unità politica dell'Italia, come fece invece per la Germania. Dal 772 all'804 condusse una serie di campagne con le quali sottomise i sassoni, che occupavano la sponda destra del Reno, li convertì a forza al cristianesimo. Conquistò quindi il Ducato di Baviera, sconfiggendo nel 787 Tassilone e costringendolo ad abdicare in suo favore nel 784. Tra il 791 e il 796 sconfisse gli Avari, alleati di Tassilone, e sul loro territorio costituì la Marca Orientale, corrispondente all'attuale Austria. Intanto Carlo aveva organizzato (778) una spedizione contro gli arabi di Spagna, ma fu sconfitto presso Saragozza e Roncisvalle; la guerra continuò per diversi anni con alterne vicende e solo nel 812 fu stipulato, con l'Emiro di Cordova un trattato di pace che portò alla fondazione della Marca Ispanica con capitale Barcellona. La notte di Natale dell'800 Carlo fu incoronato Imperatore dal Papa Leone III. I contrasti con i Bizantini furono durissimi, falliti i tentativi di mediazione dell'Imperatrice Irene nel 799 e nell'801, scoppiò una guerra voluta dall'Imperatore Niceforo I. I più importanti scontri armati avvennero nel Veneto nel 806 e nell'810. Nel 812 fu conclusa la pace tra Carlo e Michele I (successore di Niceforo). L'Impero di Carlo fu diviso in grandi circoscrizioni (contee e marche) e furono assegnate in beneficio ai vassalli maggiori. Queste tesero in breve tempo, dopo la morte di Carlo, a divenire ereditarie e a sfuggire di fatto all'autorità del sovrano. Carlo morì ad Aquisgrana nel 814.
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Dopo 200 anni di dominazione Longobarda la Valle Camonica fu occupata, nel 764, dalle truppe dei Franchi di Carlo Magno che ottenne un vittoria sugli stati Longobardi sulle pendici del Mortirolo (in alta Valle).
Dopo 200 anni di dominazione Longobarda la Valle Camonica fu occupata, nel 764, dalle truppe dei Franchi di Carlo Magno (*).
La tradizione locale (storicamente però infondata), voleva che lo stesso Carlo fosse alla testa delle sue schiere anche nella conquista del castello di Breno, la rocca più possente eretta dai Longobardi in valle, e nell'assedio delle altre numerose abitazioni o insediamenti fortificati disseminati nei punti strategici e di transito forzato nella vallata dell'Oglio.
Da qualche anno, con speranzosi scopi turistici (esempio più lampante di quanto si può ottenere in termini di immagine basata su falsità storiche è il balcone di Giulietta a Verona: Giulietta non è mai esistita eppure centinaia di migliaia di visitatori si recano nella città scaligera proprio e solo per la "storia" dei due giovani amanti Giulietta e Romeo e per farsi fotografare sul balcone che fu inventato di sana pianta alla metà del secolo scorso), è stata praticamente "inventata" una "Via di Carlo Magno" che ha "sostenitori e cantori" tra illustri studiosi e ricercatori locali e anche… tra operatori turistici, sia Camuni che Trentini. Secondo una leggenda, le cui prime testimonianze risalgono a non prima di 700 anni… dopo Carlo Magno (attorno al 1400 o 1500)… Carlo, con un grande seguito (vi era anche un Papa !) da Bergamo salì verso la Valle Camonica, transitando dalla Val Cavallina, si fermò a Lovere per poi passare da Bienno e salire a Ponte di Legno per poi valicare il Tonale per scendere in Trentino…
Il Duca longobardo di Cividate, Fulcorino, abile stratega ed esperto uomo d'arme, resistette però a lungo alle truppe di Carlo Magno, mettendo in opera diverse azioni di guerriglia, colpendo i Franchi, insediatesi nei principali castelli o paesi conquistati, e ritirandosi poi in luoghi montani protetti.
Il Conte di Brescia, Raimone, nominato dallo stesso Carlo, per porre fine alle scorribande di Fulcorino, mandò allora in Valle Camonica un contingente di armati formato sia da Bresciani che da Franchi, al comando del proprio figlio Brectero, che però in una zona imprecisata della bassa valle subì una pesante sconfitta. Sul campo rimase ucciso lo stesso Brectero e Raimone, dopo avere pianto la morte dell'amato figlio, raccogliendo altre truppe decise di salire di persona in valle.
Dapprima non incontrò alcuna resistenza, raggiungendo Cividate senza combattere, qui però trovò le porte della cittadina chiuse e tutti gli abitanti, donne e bambini compresi, sapendo che, in caso di sconfitta, erano destinati ad essere passati a fil di spada, opposero una strenua resistenza.
Alla fine però Cividate venne conquistata dai Franchi, quasi tutti gli abitanti furono uccisi o resi schiavi e Fulcorino venne portato a Brescia in catene.
La totale conquista della Valle Camonica (secondo alcune versioni, pure queste non appurate da dati e testimonianze storicamente reali) si concluse però solo dopo la sanguinosa battaglia del Mortirolo (= luogo di morte) in cui i Franchi, sempre stando alla tradizione e non suffragata da elementi di certezza storica, sgominarono le ultime resistenze longobarde e il 16 luglio 774, dopo le successive campagne in nord Italia, Carlo Magno donò tutta la Valle Camonica ai monaci del convento francese di Marmoutier nel Dipartimento di Tours.
Nella delibera reale che confermava questa donazione fu inclusa, però come zona non appartenente alla Valle Camonica ma geograficamente a lei collegata, la valle di Corteno.
- 774: 14 luglio: primo atto sovrano di Carlo Magno nel Bresciano: il re fa donazione della Valcamonica e del castello di Sirmione al monastero di Tours. Gli storici presumono che all'atto sia stato presente il Vescovo della città Ansoaldo, di origine bresciana. Il presule, che resse la diocesi dal 767 al 782, assistette al declinare del potere longobardo e alla definitiva rovina del regno di Desiderio e di Adelchi ad opera dei Franchi. Si ignora la data esatta della morte di Ansoaldo; venne sepolto davanti al vestibolo di San Pietro in Oliveto.
I privilegi di questo grande monastero durarono, anche se a fasi alterne, incontrastati per più di duecento anni, sull'intera Valle (e su altri vastissimi territori in tutto il nord Italia) e più volte vennero riaffermati dai successori di Carlo, dapprima fino all'anno 837 e poi fino al 998.
A Brescia, come vicario imperiale, al posto del Duca Longobardo venne nominato un Conte Franco, che a sua volta, scelse dei "Valvassori" con l'incarico di amministrare, in suo nome, le varie terre a lui infeudate.
In Valle Camonica i "Valvassori" vennero scelti quasi tutti tra le famiglie Martinengo, Brusato e Griffi.
In quell'anno (837), appena poco più di vent'anni dalla morte di Carlo Magno, si erano già rapidamente indebolite le strutture centraliste del suo vasto ma composito Impero e i suoi successori diretti e i grandi feudatari avevano di fatto già dissolto il Sacro Romano Impero in tanti piccoli regni, ducati, contee e marchesati, quando, in seguito ad un contrasto politico-religioso territoriale tra Ludovico il Pio (protettore dell'abbazia di Tours) e Lotario, alcuni possedimenti camuni vennero rivendicati da quest'ultimo al Monastero di San Salvatore di Brescia.
La diatriba continuò a lungo e solo cinquant'anni dopo, nell'887, Carlo il Grosso riconfermò a San Martino di Tours il possesso, i privilegi e l'infeudamento sulla Valle Camonica.
Tale conferma fu poi rinnovata, il secolo dopo, alle soglie del temuto anno 1000, da Ottone III(*): era il 998.
Ottone III: era il 998.
OTTONE III
(Kessel 980 Castel Paterno, Viterbo, 1002)
Fu nominato Re di Germania nel 983 a soli tre anni e eletto Imperatore nel 996. Scese due volte in Italia, disinteressandosi della Germania. Elevò al pontificato prima il cugino Brunone (Gregorio V), poi il proprio precettore Gerberto di Aurillac (Silvestro II); istituì una fastosa corte sul monte Aventino con l'ambizione di restaurare l'antica autorità imperiale (Renovatio imperii). Una rivolta popolare nel 1001 lo costrinse però a fuggire da Roma.
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Ormai però il dominio della potente e ricchissima abbazia francese sulla valle stava per terminare, sia per la lontananza geografica, sia perché gli inviati del monastero erano divenuti (risiedendo forzatamente in valle) essi stessi "Camuni" a tutti gli effetti, anche perché i rapporti tra i vari monasteri satelliti, sorti nelle terre date in feudo, e la casa madre si erano, poco per volta, resi aleatori e poi si erano completamente spezzati.
Dunque il controllo diretto dalla lontana terra di Francia, era andato progressivamente diluendosi e poi estinguendosi e questo stato di fatto tornava logicamente a tutto vantaggio del Vescovo di Brescia, massima autorità politico-religiosa, che raccolse totalmente l'importante eredità dell'infeudamento carolingio, divenendo, con questo, l'arbitro delle accese contese e il dispensatore, fra le più ricche famiglie bresciane, delle investiture nei numerosi feudi camuni.
In questa lotta prevalse, per un certo tempo, l'antica e potente famiglia bresciana dei Martinengo che ottenne, dallo stesso Vescovo, vasti possedimenti in valle.
Non essendoci comunque una forte struttura centrale a cui fare riferimento diretto, la situazione politica rimase piuttosto fluida e ingarbugliata per secoli, sempre aperta a nuovi atti di violenza, a contrasti, a faide, a rivendicazioni, a vendette, a soprusi e a sopraffazioni che, a volte, degeneravano in vera e propria guerra aperta, anche perchè la guerra era considerata come parte essenziale e addirittura irrinunciabile (e non l'eccezione) in quella società.
Innumerevoli furono gli episodi, che potrebbero essere raccontati e che molti autori di storia locale hanno riportato.
Si trattava di continui scontri, anche sanguinosi, tra le più antiche e ricche famiglie camuno-sebine, che si appoggiavano di volta in volta, a seconda delle proprie necessità e interessi, a qualche potente (Imperatore, Papa, Duca, Vescovo o Principe) facendolo intervenire anche direttamente.
La lotta raggiunse il suo momento più drammatico all'epoca dei forti contrasti tra il Vescovo di Brescia Arimanno e il Console Ardiccio degli Aimoni, che aveva sposato la camuna Titabuona dei Brusati di Gorzone, che coinvolse diverse famiglie nobiliari, che si schierarono sugli opposti fronti che videro truppe armate scontrarsi in diverse occasioni con molti morti da entrambe le parti, feriti lasciati morire, uomini giustiziati sul campo, prigionieri di rango lasciati macerare per anni in carceri o torturati per ottenere congrui riscatti.
E' di questo periodo che nasce anche la leggendaria figura di Leutelmonte da Esine, coraggioso e spregiudicato, che, secondo alcune "bote", riportate poi in due bei romanzi, si scontrò più volte con i sostenitori della causa vescovile come Adamo di Monticolo, Alboino di Lozio, Guglielmo a Edolo.
Il santo eremita Costanzo da Niardo, personaggio molto ammirato e venerato in Valle fu allora avvicinato, nel suo eremo, dallo stesso Vescovo ma rifiutò di sostenerne il gioco politico di espansione temporale.
Leutelmonte, nell'eremo di San Pierto aveva conosciuto "frate Lotario" che lo aveva addestrato all'uso delle armi e divenuto abilissimo cacciatore di orsi, un giorno, durante una caccia nei boschi, vide Emma, figlia del Valvassino di Plemo e se ne "innamorò perdutamente".
Tutto finì però malamente dato che Emma fu mandata sposa ad un certo Azzone Federici di Brescia: Leutelmonte, disperato fuggì in Germania.
Anni dopo rientrerà nel bresciano e acquisterà la rocca di Manerba, sul lago di Garda e con la sue bande di uomini armati, tra cui molti uomini "banditi" da Brescia, parteciperà alle lotte civili della città schierandosi a favore del Vescovo Conte.
Per una lettura più diretta e fare un poco di chiarezza e rendere edotti di quanto erano labili e instabili i rapporti tra comuni, signorie con interessi di parte che portavano a scontri anche furibondi e terribili, va ricordata la lunghissima e tribolata "storia" conflittuale tra Borno e la vicina Valle di Scalve per l'uso, il possesso e la proprietà di alcuni pascoli posti sul monte Negrino.
Riporto quanto ha scritto Giacomo Goldaniga (nel suo bel romanzo storico "Matrimonio impedito" ed.: dic. 2009) proprio riguardo questa tribolata e secolare diatriba.
"Pare che la contesa per il possesso esclusivo di questo alpeggio, ricco di pascoli, acque, boschi e selvaggina, sia iniziata nel periodo tardo longobardo. Dopo tre secoli di feroci ammazzamenti, latrocini ed usurpazioni d'ogni sorta e d'ambo le parti, nell'anno del Signore 1018, in cui fa fede dei tragici eventi scritto, 24 boni homines di Scalve (legali procuratori di quella comunità), si portarono sul sagrato della chiesa di S. Martino in Borno, e fecero vadia (promessa) ai vescovi di Brescia e di Bergamo, al conte inperiale Lanfranco, (che un tempo reggevano le sorti delle due province), ed ai rappresentanti della Vicinia bornese, che sotto pena di 2000 libbre di buoni denari d'argento, non avrebbero più molestato i nostri compaesani né avanzato pretese sul Negrino , situato a superiore del fiume Dezzo a sinistra. Ma a distanza di nemmeno un secolo, nell'anno 1901, gli abitanti dell'altopiano consegnarono un reclamo al messo imperiale di Bergamo nel quale attestavano - l'uccisione di alcune persone, incluso un chierico, numerose razzie di bestiame e, in tre successive incursioni, l'incendio di ben 56 edifici, tra case, baite, cascinali, malghe e fienili. Il delegato dell'Imperatore Enrico IV emise allora un bando contro gli Scalvini sanzionandoli con altre mille libbre di denari d'argento. Ma a buttare carne sul fuoco , cagionando d'ira delle genti di Scalve e rinfocolando la lite, contribuì nell'anno 1109, una banda di briganti, capeggiata da un certo Alboino degli Alboini di Lozio, nella quale militava una masnada di malviventi bornesi, che andava devastando e depredando numerosi villaggi bergamaschi della Valle di Scalve e della Val Seriana. Le vendette per questi misfatti le subirono però, in seguito, i malgari bornesi che lavoravano sul Negrino. Nel 1154 tentò di domare il grave bisticcio l'Imperatore Federico Barbarossa, transitato in Valle per strategie di guerra, che emanò una nuova sentenza in favore della comunità bornese, a lui cara, perché filo-ghibellina. Ma gli animi non si placarono e tra il 1318 ed il 1394 furono emesse ben quattro terminazioni di confine cosicché i cippi in pietra calcinera furono rimossi e traslocati per altrettante volte. Nell'anno 1410 non mancò di creare scompiglio e suscitare altre ribalderie il nuovo principe Pandolfo Malatesta, divenuto signore di Bergamo e di Brescia, che confiscò metà della giogaia bornese per assegnarla alla potente famiglia dei Capitanei di Scalve. Gli uomini dell'altipiano ripresero a rubare legname, selvaggina e armenti sull'alpe, finchè non venne loro restituita la parte sottratta. Persino i nostri lettori come al fine di rabbonire gl'animi dei contendenti fosse intervenuto financo San Bernardino da Siena che, intorno al 1411, si trovava a Clusane per predicare la fratellanza alle genti bergamasche . I fatti d'arme ripresero con veemenza, tra il 1515 e il 1520, precipitando nell'abominia, allorquando due capibanda scalvini, con una quarantina di facinorosi , cacciarono tutti i coloni avversari delle località Paghera e Scandola, trucidando cinque braccianti sul Negrino e, nel contempo, ferendo sul Lago d'Iseo, per il tramite di alcuni sicari, due uomini di legge, che tornavano da Venezia. I Bornesi si vendicarono in occasione del passaggio dell'Imperatore Massimiliano per la Valcamonica. Recatisi a Breno, dove alloggiava il sommo sovravo, implorarono il consenso di poter bruciare e saccheggiare Scalve "guelfa e marchesca" . Il monarca li volle compiacere altrimenti inviando una piccola armata capitanata dal Conte di Lodrone, che mosse da Castione della Presolana alla volta di Vilminore. Ma giunto colà, com'era costumanza dei condottieri e dei capitani di ventura, barattò l'annichilimento della valle in cambio di 500 ducati. Inappagati e delusi per un siffatto patteggiamento, che sapeva tanto di tradimento, i Bornesi radunarono allora 600 armati, (è fuor di dubbio che il cronista ne gonfiò l'entità numerica), e devastarono le contrade di Azzone, Dosso, Pradella e Serta. Gli Scalvini, dal canto loro, restituirono tosto la pariglia ed in numero di 300, valicarono il Negrino e sgozzarono tutti gli alpigiani dell'opposta fazione. Assistendo impotenti a codesti incresciosi fatti d'arme, i rettori camuni e bresciani, mandarono ambasciatori a Venezia affinchè la Repubblica marinara intervenisse a sbrogliare la matassa. Il Consiglio dei Pregadi incaricò i Patrizi Ruggero Contarini, Matteo Malipiero e Filippo Tron di perlustrare i luoghi e mettere giudizio sulla contesa. Costoro divulgarono una prima sentenza compiacente agli Scalvini, argomentando, com'era giusto che fosse, che in appoggio alla geografia del territorio, il monte spettava loro. Teste dure anche i Bornesi che non vollero assoggettarsi al bando veneto e per tutta risposta accopparono sul Negrino due governatori di Scalve della potente famiglia dei Capitanei e scorticarono vivo un certo Berlinghieri, nei pressi di Salven, bruciandolo ancora vivo in una carbonaia. Ma come spesso accade agli assassini, il fautore di questo obbrobrio domiciliato nel Piano di Borno, fu assassinato anch'esso con tutti i suoi familiari. Nel 1518 gli Avogadori credettero di aver trovato l'illuminazione per venire in capo alla faccenda. Ordinarono che si facesse un modello in miniatura del monte reclamato, e lo si portasse a Venezia per essere attentamente esaminato da 25 Savi. Stupisce come la Serenissima trovasse il tempo, la voglia, la costanza e le finanze per risolvere un malaffare a dei sudditi così lontani di terra ferma che, a dire il vero, non erano per niente intenzionati a pacificarsi. Fu gran cosa, davvero curiosa da vedere, quella ingegnosa macchina che mostrava il luogo conteso con tutte le sue strade, cascine, prati, pascoli, seni del monte e distanze debitamente rimpicciolite, opera resa possibile grazie al lavoro di un architetto e ingegnere napoletano di nome maestro Bernardo. Ma quando il modello fu terminato tutti s'accorsero che per le sue misure non poteva passare dalla strada della Corna Mozza e così si dovettero allargare alcuni tratti della strada del Giogo e farlo "trasire da colà " . Per tranquillizzare quelle grandiose menti dell'una e dell'altra parte, per garantire loro che durante il viaggio nessuno avrebbe osato e potuto ritoccare il modello, lo si racchiuse in un enorme cassone, serrato con due chiavi, "che stavano appresso i Deputati delle due terre". Ma pure questa trovata non piacque agli uomini di Scalve che, nel frattempo, mentre aspettavano la sentenza dei 25 Savi, sconfinado dai loro territori, in gran numero, si diressero contro i nemici al grido - A Borno a Borno, vogliamo mangiare le vostre corrade arrosto. E sicuramente l'avrebbero fatto se non fosse intervenuto in tempo il Capitano di Valle con i suoi soldati a domare la scorribanda. Toccò alla facondia dei 25 Savi veneziani d'emettere una sentenza di buon porto, come si diceva in simili frangenti: il giusto confine doveva essere la cresta del monte, la metà al vago spettava a Scalve e la metà rivolta a mezzodì a Borno. Ma ad una siffatta risoluzione i più destri tra gli Scalvini rimbeccarono che anche l'asino del podestà di Scalve avrebbe potuto tracciare la terminazione, sarebbe bastato che fosse salito, a suon di bastonate, lungo il sentiero della costa. Ciascuna delle due parti voleva il monte per intero; dunque, tempo, fatica e quattrini sprecati, per giunta in un periodo storico in cui la fame la faceva da padrona! Nell'anno 1521 gli Scalvini ripigliarono le solite angherie, rapinando del bestiame in località Ranico e mandando all'altro mondo un giovane sopraggiunto in soccorso dei malgari. Gli aggressori furono però processati a Breno, dal Capitano di Valle, Antonio Lana. Quattro anni più tardi il Doge Andrea Gritti obbligava la reggenza della Valle di Scalve a versare 5000 denari, in tre rate annuali, al comune di Borno, per l'acquisizione della metà del monte, deliberata dal collegio dei 25 Savi. Anziché ritenersi appagati della sentenza ducale, i Bornesi, con animo invelenito, principiarono a frodare le legne sul versante montano che avevano perduto, aiutati da gentaglia di Ossimo e, udite bene, da alcuni frati del convento dell'Annunciata. Nell'agosto del 1537, a loro volta, gli Scalvini si recarono sul versante bornese del Negrino e fecero razzia di vacche e capre. L'anno seguente la contesa prese una brutta piega e scomodò per la seconda volta il governo veneto. I reggitori delle due comunità litiganti chiusero i reciproci passi, allogando guardie armate ai confini. La cosa risultò di una gravità estrema poiché umiliava i funzionari e le milizie governative esautorandoli di fatto del loro potere. Il Consiglio dei Dieci, per tutta risposta, bandì un proclama atto a ristabilire il libero transito, sotto pena del confino, lontano 15 miglia, per i trasgressori e addirittura il taglio della testa per i recidivi. Codeste sanzioni e la taglia di 300 lire per gl'ingrassatori della rissa, affievolì per qualche decennio la secolare controversia che si riaprì nel 1570 invero con un tenore più leguleio. I periti e i giurisperiti d'entrambe le parti contestarono le misurazioni di Mastro Bernardo, riportate sul plastico del monte. E' il caso di dire che, con la pazienza di Giobbe, la magistratura veneta accolse le impugnazioni delle parti e fece rispedire il modello in Val di Scalve, incaricando un abile periziatore sopra le parti, certo Giovanni Rusconi, di apportarvi tutte le correzioni del caso. Tuttavia la contesa non si sarebbe mai assopita se non si fosse intromessa nell'annosa questione la mano dell'Onnipotente. Nel luglio del 1654 un fatto prodigioso quietò l'animosità dei contendenti. Il pastore bornese Bartolomeo Burat, mentre transitava col suo gregge, in territorio di Scalve, colto da polmonite fulminante venne miracolosamente guarito dalla Madonna, che gli apparve alle Fontane di Dezzo e gli bagnò la fronte con l'acqua di una vicina fonte. A seguito di questo portento, gruppi di devoti delle due terre ostili si recarono in pellegrinaggio sul luogo del miracolo a pregare e a raccogliere acqua risanatrice per i loro malati. Dopo qualche tempo le genti delle due vallate si riappacificarono dinnanzi alla santella della Madonna delle Fontane, semplice edicola rurale che s'incamminò presto a diventare un grandioso santuario; il 20 luglio del 1682 i governanti delle due comunità s'incontrarono nei pressi del Giovetto di Paline e siglarono un compromesso e una pace stabile. I Bornesi per l'occasione si dimostrarono assai munifici e cedettero ai secolari rivali la loro metà di monte, al Val Giogna, i Fopponi ed il versante settentrionale del Costone, così che l'incaricato a designare il nuovo confine, tal Hieronimo Isonni, piantò dieci termini di pietra, con una vistosa croce nel mezzo, dalla cima del Costone all'estremità occidentale della colma del Bèlem o Corna Mozza, che poi rimase ad immemorabilis, il confine attuale."
Oltre agli innumerevoli "scontri" a Borno (con gli Scalvini), a Erbanno, Esine, Breno, Edolo, Cemmo, Paspardo, Mù, Vezza, Malonno, Bienno, Lozio, Angolo, ecc., forse la vicenda più significativa è quella che si riferisce alla lunghissima e cruenta questione per il possesso del feudo di Volpino posto a cavallo della riva nord del lago d'Iseo e all'imbocco della Valle Camonica.
Da semplice questione ereditaria tra famiglie (imparentate tra loro) divenne una lunga e sanguinosa guerra tra potenti città e grandi feudi con l'intervento addirittura dell'Impero e del Papato, di eserciti e flottiglie lacustri, di cavalieri e… santi.
Le terre di Volpino, in quel periodo storico (senza strade nel fondovalle) avevano anche una particolare importanza strategica e militare, che andava ben oltre il puro possesso territoriale.
La sua collocazione geografica e dunque la possibilità di controllare con le sue rocche e ponti i commerci e gli scambi, la facevano di fatto la porta di accesso da sud all'intera Valle Camonica e alle sue importanti vie di transito addirittura per la Valtellina, il Trentino e dunque anche il centro Europa.
La storia della "questione" di Volpino era nata a seguito delle continue discordie tra l'antichissima famiglia Brusati con quel Giovanni Brusati, feudatario di Volpino, Qualino e Ceratello, politicamente e tradizionalmente appoggiata e legata a Brescia e al suo Vescovo e la confinante (e consanguinea: erano cugini !) famiglia di Gislinzone Mozzi, spalleggiata e protetta dal comune di Bergamo e dalle famose e potenti famiglie bergamasche dei Colleoni e dei Ficeni.
Nel 1126 Giovanni Brusati decise di vendere le sue terre poiché, per rispettare un giuramento che aveva fatto alcuni anni prima, voleva recarsi alla crociata in Palestina.
Il Brusati aveva dapprima offerto i suoi possedimenti, rispettando un antico diritto di prelazione, al Vescovo di Brescia, che però, in notevoli ristrettezze economiche, si vide costretto a rifiutare l'offerta.
Allora il Brusati, in necessità di denaro, si rivolse al Comune di Bergamo che, in breve tempo, concluse l'affare.
Questa vendita, che allargava di molto il potere territoriale e l'influenza politico commerciale dei bergamaschi verso la Valle Camonica e dunque verso le terre bresciane del Sebino, fu subito contestata dal Vescovo di Brescia che si sentì obbligato a intervenire direttamente con le armi… in nome del "diritto antico e della rappresaglia".
A sua volta Bergamo inviò truppe sul posto e gli scontri, inevitabili, furono violenti e sanguinosi ma non portarono esito alcuno o vantaggio di parte e proseguirono, con alterne vicende, per quasi 30 anni, fino al 1154.
Fu in quell'anno che la contesa sembrò risolta, almeno ufficialmente e sulla carta, da un editto dell'Imperatore Federico Barbarossa (*) che, presente in Nord Italia, gestendo il suo diritto al derimere le cause tra coloro che riconoscevano la sua autorità con il proprio vassallaggio, sentite le parti in causa, emise una sentenza favorevole alla Curia di Brescia.
FEDERICO I Barbarossa
Waiblingen 1123 - Fiume Salef - Cilicia 1190
Fu Imperatore dal 1152 al 1190. Della famiglia Hohenstaufen, duca di Svevia, alla morte del padre (1147), affiancò lo zio Corrado III nella seconda crociata. Successe allo zio al trono di Germania nel 1152 e acquisì il diritto alla corona d'Italia e al titolo imperiale. Fu incoronato re a Pavia e Imperatore a Roma da Papa Adriano IV. Intenzionato ad imporre la propria autorità assoluta sia in Germania che in Italia, scese più volte nella penisola. Rase al suolo Crema (1160) e Milano (1162). Occupò anche Roma (1166). Fu sconfitto dalla Lega Lombarda nella battaglia di Legnano il 29 maggio 1176 e dovette firmare la pace di Venezia con il Papato (1177) e la pace di Costanza (1183) con i comuni Lombardi. Il matrimonio (1186) di suo figlio Enrico con Costanza d'Altavilla, erede al trono Normanno in Sicilia, sancì l'unificazione dei due regni d'Italia sotto un sovrano tedesco. Postosi alla guida della III crociata, dopo la conquista musulmana di Gerusalemme del 1187, morì annegato nelle acque del fiume Salef sulle montagne della Cilicia.
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Rientrato il Barbarossa in Germania, per sedare una delle tante rivolte della sua irrequieta nobiltà teutonica, nell'anno seguente (1155), i bergamaschi, confutando l'ordinanza imperiale, ripresero le ostilità con piccoli scontri e scaramucce finchè, l'anno dopo, nel 1156, i due schieramenti opposti si scontrarono in campo aperto in una battaglia che si svolse nella bassa pianura a cavallo dell'Oglio, nei pressi dei castelli di Pontoglio e di Palosco, nella piana delle Grumore.
Malgrado fossero state le truppe bergamasche ad attaccare per prime, sentendosi superiori per numero, la vittoria alla fine fu delle truppe vescovili Bresciane che sbaragliarono quelle comunali di Bergamo: da questi venne chiesta una tregua e si giunse così alla stipula di un accordo di sospensione delle ostilità e alla successiva pace di Palazzolo.
Sconfitti sul campo e pesantemente penalizzati dalle clausole di cessioni territoriali nelle trattative, i Bergamaschi, mutata anche la situazione politica generale in tutto il nord Italia e cambiate le alleanze con l'Impero germanico, pensarono, a loro volta, di rivolgersi direttamente al Barbarossa, mantenendocontemporaneamente in armi il proprio esercito, malgrado questo fosse esplicitamente vietato dal il trattato di pace, che avevano dovuto sottoscrivere dopo la sconfitta.
Questa volta l'Imperatore, per sua opportunità politica (o per munifici regali ricevuti !), accettò di sostenere i diritti di Bergamo che vennero imposti e resi effettivi ed operativi (sulla carta) nel 1158 alla seconda Dieta di Roncaglia.
- 2 GENNAIO 1157: il vescovo Raimondo, per contrastare la parte filo imperiale, dà in feudo a Pietro e a Lanfranco Martinengo i paesi di Dalegno e Cimbergo in Valle Camonica, Nigoline, Calino e Torbiato in Franciacorta, S. Gervasio, Isorella e Calvisano nella Bassa.
- 12 OTTOBRE 1158: il Vescovo Raimondo interviene a comporre la lite tra le comunità di Breno e di Niardo per la proprietà del monte Stabio, su cui pascolare bestiame "grosso e fino con raccolta di fienatico e grassa".
I Bresciani intanto, ben informati delle trattative tra gli ambasciatori di Bergamo e l'Imperatore, certi che lo stesso Barbarossa avesse già maturato l'idea di modificare la sua precedente sentenza, si erano rivolti all'altra somma autorità (anche temporale) di allora: Papa Adriano IV che, per contrapposizione alla crescente invadenza politica del monarca tedesco sul suolo italiano, divenne uno strenuo sostenitore dei diritti dei Bresciani.
Ben sapendo che in gioco, tra Papato e Impero, vi erano interessi ben maggiori delle semplici diatribe sulle terre di Volpino e che le dispute e i cavilli legali discussi nei tribunali dell'Impero non avrebbero dato alcun esito favorevole alle loro rivendicazioni, i Bresciani pensarono di agire in proprio e fortificarono le difese e le mura del castello di Volpino.
Fu una operazione certamente opportuna, ma che risultò completamente inutile, poiché i Bergamaschi, con un ardito colpo di mano conquistarono la rocca nel 1162, alleandosi anche di fatto sul campo di battaglia alle truppe del Barbarossa che era impegnato nella cruenta lotta contro Milano (e altre città lombarde) e che voleva avere le spalle ben sicure e protette.
Essendo Brescia (nemica storica di Bergamo) alleata di Milano, il Barbarossa cercò di colpirla direttamente nel suo territorio.
- 1161: 22 giugno: Federico Barbarossa assalta il borgo di Iseo e lo incendia; quindi si dirige verso Milano a cui porrà assedio.
Le truppe germaniche e quelle bergamasche piombarono sulla piazza di Iseo, la conquistarono e la saccheggiarono. Il colpo fu duro e pesante per Brescia poiché Iseo era allora il più importante centro commerciale dell'Ovest bresciano ed era il principale nodo di transito e scambio tra le zone di influenza bergamasca e bresciana.
Le operazioni militari dell'esercito imperiale non si fermarono sul basso Sebino e, dopo insistenti richieste degli stessi bergamaschi, il Barbarossa, li favorì ulteriormente nelle loro rivendicazioni territoriali sulla sponda nord del lago d'Iseo.
Dalle terre di Volpino l'Imperatore risalì la Valle Camonica e pose in stato di assedio e distrusse il famoso castello di Pedena che sorgeva presso Cemmo.
La roccaforte apparteneva ed era difesa da un nutrito gruppo di sostenitori Guelfi fedeli a Brescia. Di questa potente rocca (e di molti alti castellieri di cui era disseminata tutta la valle) da allora se ne sono perse quasi completamente le tracce. Raso al suolo il castello, trucidati i suoi occupanti, il Barbarossa, con questo sanguinoso gesto di forza, nel cuore della terra bresciana, intese dare un chiaro, forte e inequivocabile esempio del suo potere anche in valle.
Federico emise quindi una "imperiale", cioè una ordinanza che aveva effetto immediato, in cui imponeva sudditanza totale alle terre comprese tra Lovere e Gorzone a Federico Brusati-Mozzi, nobile di origine bergamasca, da cui deriverebbero poi i vari rami della casata dei Federici di Valle Camonica.
I Camuni (tutto sommato già tendenzialmente filo imperiali per l'atavica avversione a Brescia) passarono sotto il diretto controllo imperiale e per questo vassallaggio ottennero, nel 1164, un diploma nel quale il Barbarossa offriva la sua diretta "alta protezione" alla valle, creando cosi la "Comunità Camuna".
Con questo editto la Valle veniva affrancata da ogni forma di assoggettamento civile ed ecclesiastico dovuto alle Curie di Brescia o di Bergamo, venivano concesse alcune libertà, come quella di eleggere i propri Consoli, purchè questi rimanessero fedeli, con solenne giuramento, all'Imperatore e solo a lui, o a un suo legato che avesse ricevuto la sua diretta investitura.
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1167: 7 APRILE: in questo giorno i rappresentanti della città di Brescia aderiscono a Pontida alla Lega Lombarda assieme a quelli di Bergamo, Cremona, Ferrara e Mantova.
La "protezione" e i "favori" del Barbarossa però durarono poco: nella nuova situazione politica che era maturata in seguito alla formazione della Lega Lombarda, la Valle Camonica, visto che le promesse imperiali non si erano concretizzate, si schierò sulle posizioni dei Comuni e contro l'Impero.
La famosissima battaglia (con vittoria dei Comuni) di Legnano, nel 1176, portò, dopo altre scaramucce, scontri e anche brevi tregue, alle trattative di pace che vennero discusse a Costanza nel 1183: nei vari "capitolati" furono salvaguardate le libertà comunali contro la prepotenza e ingerenza imperiale, con espresso riferimento anche a quelle della Valle Camonica.
Chiusa con la pace di Costanza la lotta dei Comuni lombardi contro il Barbarossa, si riaccesero però immediatamente le liti, le rivalità, gli scontri e le beghe tra Bergamo e Brescia per il possesso degli importanti borghi di Sarnico e Caleppio (sulla sponda sud ovest del basso Sebino), nonchè delle solite terre di Volpino, sulla sponda nord.
Vi furono ancora alcuni interventi armati, con iniziativa da entrambe le parti, con diversi morti, feriti e distruzioni di case e di fienili, fino alla battaglia di Rudiano che fu combattuta sabato 7 luglio 1191.
Ancora una volta la vittoria fu delle armi Bresciane che, questa volta, ebbero anche l'importante appoggio di molti uomini armati provenienti dalla Valle Camonica.
Rudiano era una località nei pressi di Cividate al Piano, al confine tra le zone di influenza di Brescia e Bergamo, il cui confine era il fiume Oglio.
Proprio per attraversare l'Oglio fu gettato, dalle truppe bergamasche aiutate da quelle giunte da Cremona, un ponte provvisorio su cui le schiere bergamasco-cremonesi avrebbero dovuto passare per cogliere di sorpresa i bresciani.
Così non fu e, le truppe di Brescia, avvisate delle manovre dei nemici, attesero preparati e riposati (al contrario dei nemici che, stanchi, avevano dovuto percorrere diversi chilometri) e sconfissero gli avversari che, fuggendo disordinatamente, si ammassarono sul piccolo ponte che all'improvviso cedette di schianto: nelle profonde acque dell'Oglio precipitarono molti uomini armati con le pesanti armature, corazze, cavalli e carriaggi.
Fu una strage a cui assistette e partecipò direttamente anche Obizio da Niardo che si trovava sul ponte al momento del crollo mentre inseguiva gli avversari in fuga.
Obizio, rimase anche lui intrappolato tra le travi semi sommerse dall'acqua e per lungo tempo chiamò aiuto senza che nessuno lo sentisse. Alla fine, racconta la "storiografia del futuro santo", stremato si assopì e intriso della mistica religiosità del tempo, sognò di scendere all'inferno e di vedere cose orrende.
Tratto in salvo da alcuni amici, Obizio frastornato dalla vicenda, tornò a casa e chiese alla moglie, la contessa Triglissenda e ai suoi quattro figli, di liberarlo da ogni vincolo familiare e, donata ai poveri buona parte delle sue rilevanti sostanze, lasciata al comune di Breno una ingente somma per la costruzione di un solido ponte sull'Oglio (il famoso ponte Minerva a sud di Breno che tanta importanza, anche politica, ebbe in seguito nelle vicende camune) e si ritirò nel monastero di Santa Giulia a Brescia.
La leggenda vuole che alla sua morte, nel 1204, sia sgorgata dal marmo del suo sepolcro una sorgente "d'acqua limpidissima", miracolosa e capace di guarire ogni sorte di malattia e infermità.
Ma anche la vittoria di Rudiano non bastò a risolvere, una volta per tutte, l'annosa questione che vedeva contrapposte Brescia e Bergamo e i loro alleati.
L'anno seguente (era il 1192) un editto Enrico VI (*), che era succeduto al Barbarossa, morto annegato durante la crociata che l'Imperatore, spinto dal Papa, aveva organizzato in Oriente, definì i confini del territorio bresciano assegnando definitivamente Volpino a Brescia mentre Sarnico e Caleppio furono posti sotto Bergamo.
ENRICO VI
(Nimega 1165 - Messina 1197)
Imperatore dal 1190 al 1197. Succedette al padre Federico I Barbarossa. Il matrimonio con Costanza d'Altavilla nel 1186 gli conferì il diritto alla successione sul trono Normanno di Sicilia e Puglia, che ottenne tuttavia solo nel 1195, dopo la morte di Tancredi di Lecce. Superata l'opposizione del Papa e dei feudatari tedeschi, governò con fermezza l'Italia meridionale reprimendo le rivolte baronali; cercò invano di unificare in un solo regno i suoi domini.
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La Valle Camonica venne dunque posta, da quel momento, sotto "l'alto patronato" di Brescia, dalla quale mantenne però una certa autonomia amministrativa e indipendenza fiscale.
Questa situazione politica e territoriale, con quella lontananza da Brescia che non era solo "fisica", favorì il gioco dei nobilotti locali che, divisi in Guelfi (filo bresciani) e Ghibellini (indipendentisti e legati politicamente e con vassallaggio all'Impero), cominciarono a battersi aspramente per il predominio in valle, cercando di guadagnare alla loro causa il favore popolare con alcune concessioni, come attestano gli accordi di Pisogne nel 1195 e di Montecchio nel 1200.
Le due fazioni divisero le grandi famiglie della Valle in due netti schieramenti che in modo sanguinoso si scontrarono in varie occasioni.
Tra i Guelfi, molto radicati nella media Valle Camonica, erano annoverate le più antiche famiglie nobiliari camune di origine bresciana: i Nobili di Lozio, i Lupi e Camozzi di Borno, i Beccagutti di Esine, gli Antonelli di Cimbergo, i Magnoni a Malonno, i Ronchi e gli Alberzoni di Breno, i Palazzo e i Sala di Cividate, i Griffi a Losine, i Pellegrini e i Bottelli a Grevo
I Ghibellini erano rappresentati specialmente dai vari rami in cui si era divisa la prolifica e potente famiglia dei Federici che avevano, in poco tempo, "piazzato" propri "parenti e famigli" nei principali paesi e castelli della bassa e alta Valle Camonica: a Montecchio, Erbanno, Gorzone, Artogne, Volpino, Vezza e Mù.
La più attiva in questo scontro politico fu proprio la fazione ghibellina, che guidata da alcuni degli esponenti più in vista dei Federici, ben presto riuscì ad ottenere una prevalente posizione di potere, contrastando l'azione politica del Vescovo bresciano che invece tendeva a consolidare i numerosi privilegi ecclesiastici in Valle.
La situazione generale di particolare instabilità, di rifiuto di assoggettarsi ai delegati curiali, fece si che la stessa Curia di Brescia dovette intervenire direttamente assicurando la sua presenza in valle con la forza non del crocefisso ma delle armi (cosa che molte volte, senza nessun scandalo, si sovrapponeva).
- 1233: 13 febbraio: a Brescia i rappresentanti delle Vicinie di Sellero, Mu, Incudine, Edolo, Cortenedolo, Sonico e Corteno giurarono fedeltà al vescovo Guala De Roniis, domenicano bergamasco, presule bresciano dal 1229 al 1244.
A Montecchio, uno dei centri allora più ricchi e importanti dell'intera Valle Camonica, tanto che erano presenti ben sei chiese e molte abitazioni avevano il tetto ricoperto da tegole o coppi o lastre di pietra invece che con paglia (come allora era uso ovunque), era posta la "Domus curiae" da cui i delegati vescovili esercitavano le loro funzioni di gabellieri e di sorveglianza.
Montecchio era strategicamente importante anche per il ponte che attraversava l'Oglio e per il castello sulla collina del Monticalo (un altro castelliere forse era presente anche sull'altra collinetta, ora chiamata del Castelletto o Castellino, che era posto proprio in verticale sulla via di transito in uscita dal ponte sulla sponda orografica destra, dove ora sorge Boario Terme). Proprio a Montecchio fu sanguinosamente domata una rivolta di nobili camuni che si erano ribellati alle forti imposizioni vescovili e avevano protestato minacciando di occupare con la forza il castello.
Dal 1248 il Vescovo, non fidandosi a delegare in loco le principali cariche civili e militari (oltre a quelle religiose) nominò un suo rappresentante a reggere, in qualità e con la nomina di Sindaco, quel comune molto importante poiché, comprendendo Darfo, Corna e Gianico, costituiva la porta d'accesso all'intera Valle Camonica e alla confinante e collegata Val di Scalve.
Furono comunque sempre le imposizioni, le tasse, i balzelli, le prebende e le pretese di Brescia sulla Valle Camonica a segnare l'inizio di una lunga serie di aperte lamentele che ben presto si trasformarono in forte ostilità e in una serie di cruente ribellioni che portarono ad altri lutti e alle successive inevitabili faide e vendette.
Il culmine della lotta armata fu nel 1288 quando i Ghibellini camuni, rafforzati da numerosi rappresentanti e famigli delle due casate più importanti della valle: i Federici e i Celèri, fecero strage dei Guelfi di Pisogne, inseguendo i superstiti fino al castello degli Oldofredi di Iseo, aperti sostenitori del Vescovo di Brescia e degli interessi di quella Curia.
Brescia rispose immediatamente alla disfatta mettendo al bando gli aggressori.
Questi però, al sicuro nelle loro case fortificate, nei loro castelli e appoggiati dalla popolazione locale nonché facilitati, nella difesa delle loro postazioni, dall'asprezza naturale della valle, continuarono indisturbati le loro rappresaglie, dimostrando come il Comune e la Curia bresciani fossero impotenti a domare la rivolta con la sola forza delle proprie armi e delle scomuniche.
- 1244: 3 settembre a Pisogne: muore il Vescovo Beato Guala de Roniis, originario di Bergamo, ed appartenente all'Ordine dei Domenicani, chiamato da Papa Gregorio IX a reggere la diocesi bresciana nel 1230, dove attua un'energica opera riformatrice.
- 1254: 1° ottobre: a Brescia il nuovo Vescovo Cavalcano Sala (o de Salis) di origine bresciana, chiamato a reggere la diocesi da Papa Innocenzo IV, è nominato per la prima volta in un documento pubblico. Già arciprete della Cattedrale si oppone al potere di Ezzelino. Quando il 28 agosto 1258 il signore da Romano s'impadronisce di Brescia, il presule è costretto a rifugiarsi a Lovere dove vive esule fino alla morte, avvenuta nel gennaio 1263.
- 1259: 1° settembre: a Brescia Ezzelino da Romano entra in città e si proclama signore. La sua ferocia antiguelfa costringe il Vescovo Cavalcano De Salis a rifugiarsi a Lovere, mentre molti Guelfi trovano scampo nella fortezza di Orzinuovi. La signoria di Ezzelino ha breve durata: il 27 settembre dell'anno successivo viene infatti sconfitto dalla Lega dei Comuni a Cassano d'Adda; gravemente ferito e fatto prigioniero, morirà pochi giorni dopo a Soncino.
La lotta tra "le grandi famiglie" durò ancora a lungo con vari scontri armati che nulla risolsero e allora, come era in uso, si dovette ricorrere ad un arbitraggio (o arbitrato), ma, diffidando, entrambe le parti, sia dei Delegati imperiali sia dei Nunzi indicati dal Papato venne, di comune accordo, accettato come giudice il Signore di Milano, Matteo Visconti(*) che, nel 1291, compose salomonicamente la vertenza accogliendo in parte le richieste dei Federici e dei loro alleati ma imponendo direttamente un podestà, di sua nomina, per la Valle Camonica.
VISCONTI
Famiglia lombarda: tenne la signoria di Milano dal 1277 al 1447 e dal 1395 ebbe il titolo ducale. Le prime testimonianze sui Visconti risalgono al secolo X, come vassalli del Vescovo di Milano. Tra i diversi rami in cui si divise la famiglia emerse a Milano quello di Uberto (m. 1248). Azzone, suo figlio, fu Vescovo di Ventimiglia dal 1251 al 1262. Figlio di Uberto era anche Ottone (1207-1295), che il Papa Urbano IV nel 1262 nominò arciVescovo di Milano per contrapporlo all'altra grande famiglia milanese i Della Torre, capi della fazione popolare. Nel 1277 Ottone sconfisse a Desio i Della Torre e conquistò la signoria della città che passò nel 1282 al pronipote Matteo I (1250-1322), che ottenne il titolo di Vicario Imperiale per la Lombardia e si insediò al potere nel 1311 grazie all'intervento dell'Imperatore Enrico VII. Iniziò da allora una politica espansionistica che lo portò in breve tempo ad assoggettare Bergamo, Como, Cremona, Lodi, Novara, Pavia, Piacenza, Tortona e Vercelli. Accusato di eresia e scomunicato, abdicò nel 1322 in favore del figlio Galeazzo I (m.1327) che trasmise i domini viscontei al figlio Azzone (1302-1339). La signoria fu poi divisa nel 1354 tra i nipoti Bernabò (1323-1385), Galeazzo II (1320-1378) e Matteo II (1319-1355). Gian Galeazzo (1351-1402) ricevette il titolo Ducale nel 1395, riunificò la signoria e impostò una politica tendente all'unificazione dell'Italia centro-settentrionale: la sua improvvisa morte pose fine a questo suo vasto disegno egemonico. I domini toscani andarono a Gabriele Maria (m.1405) e il Ducato di Milano dal 1402 al 1407 a Giovanni Maria (1389-1412), sotto la tutela della madre Caterina. I domini dei Visconti furono riunificati da Filippo Maria (1392-1447), che, sconfitto da fiorentini e veneziani a Maclodio (1427), dovette cedere la Lombardia orientale, Genova, la Romagna e la pianura del Casentino. Morto senza eredi maschi Filippo Maria, si impossessò del Ducato di Milano Francesco Sforza, marito di Bianca Maria (1425-1468), figlia naturale di Filippo Maria.
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Con questo intervento del Visconti nelle vicende interne della Valle Camonica si erano poste tutte le premesse per la futura conquista e occupazione della valle stessa da parte del Duca di Milano.
Prima però si dovette assistere ad una nuova rivolta dei Camuni contro Brescia.
- 1288: 28 ottobre: a Brescia allarme per la ribellione provocata in Valle Camonica dalle famiglie Federici e Celeri che fanno strage di Guelfi a Pisogne e saccheggiano e incendiano Iseo. Il Consiglio generale della città mette al bando i ribelli e i feudatari di Breno, Malonno, Cemmo, Esine e Corteno.
In città, dopo un breve periodo di lotte intestine tra le famiglie più in vista e più importanti, il grande Vescovo, Berardo Maggi, era riuscito a riunire "realmente" nelle sue mani sia il potere politico che quello religioso.
Era divenuto dunque il vero e incontrastato Signore di una Brescia, pacificata sotto il Vangelo, ma specialmente sotto la paura delle sue armi.
Dall'energico Vescovo il potere della sua Curia venne subito esteso e reso effettivo anche alle periferiche tumultuose e irrequiete terre del contado e della provincia e una delle prime azioni politico-militari di questo Vescovo-principe fu di rinforzare in Valle Camonica la parte guelfa, a lui nettamente favorevole.
Procedette dunque a nuove investiture e alla concessione di privilegi a chi, appoggiandosi a Brescia, per interesse o invidia, non sopportava il peso dei signorotti Ghibellini che avevano avuto diversi privilegi dall'arbitrato milanese.
Forse fu per questa esclusione, da nuovi vantaggi economici e politici, che immediata e violenta scoppiò la reazione del partito dei Federici, rimasti fuori, per la loro vicinanza alla Signoria di Milano, dalle varie nuove nomine e prebende bresciane: nel 1301 ricomparvero in molti paesi della valle degli uomini armati e pronti a combattere contro le truppe del Vescovo di Brescia.
La repressione ordinata dal Maggi fu rapida, ma, pur violenta, sanguinaria e volutamente radicale non fu sufficiente a distruggere totalmente i Ghibellini camuni e sebini… però indubbiamente contribuì a indebolirne (momentaneamente) il loro potere locale e ridimensionare l'influenza dei Federici in quasi tutta la bassa Valle Camonica.
Per alcuni anni la situazione rimase abbastanza stabile e fossilizzata ma, sotto un'apparenza di normalizzazione covava, forte e non sopita. una diffusa fronda nei confronti dell'invadenza e della rapacità bresciano: erano state imposte nuove tasse e balzelli che gravavano su una popolazione già povera.
Per complicare ulteriormente una situazione già di per sé ingarbugliata, i Ghibellini camuni, in difficoltà militare e politica, appena le condizioni lo permisero, chiesero aiuto ad Arrigo VII che, nel 1311, era sceso a Milano per esservi incoronato Re.
- 1311: 5 settembre a Brescia il cardinale Princivalle Fieschi, genovese, compie la missione di pace presso l'Imperatore Arrigo VII che, con lungo assedio, ha ridotto la città allo stremo. Forse perché a conoscenza della situazione bresciana, il Papa lo nominerà Vescovo di Brescia nel 1316.
- 1316: 31 gennaio: a Brescia Iacobo Cavalcabò, signore di Cremona, entra in città grazie all'aiuto di quattromila guelfi delle Valli e mette in fuga Bernardo Maggi, vescovo e signore di Brescia; il palazzo vescovile viene incendiato.
Arrigo, per avversione al Papato e ai Vescovi-Principi che gestivano il vero potere temporale in molte città stato indipendenti, riconfermò alla Valle Camonica le concessioni già fatte dal Barbarossa nel 1164, ne ribadì l'indipendenza da Brescia, ne assunse la "diretta e alta" protezione ed inviò in valle un suo rappresentante.
Fu dall'anno successivo (1312), con le varie nomine imperiali ai signori e Duchi d'Italia, fedeli ad Arrigo, che cominciò ad estendersi anche sul territorio bresciano (e sulle sue valli) il il potere di Cangrande della Scala, nominato Vicario Imperiale dallo stesso Arrigo VII.
CANGRANDE della SCALA
Verona 1291 - Treviso 1329
Vicario Imperiale a Vicenza e Verona: estese i suoi domini su Feltre, Belluno, Padova e Treviso. Dal 1313 al 1318 ospitò alla sua corte Dante Alighieri che lo immortalò nel canto XVII del Paradiso.
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I Ghibellini camuni, sempre pronti ad allearsi con chiunque fosse disposto a contrastare i poteri bresciani, favorirono il disegno politico di espansione territoriale di Cangrande e nel 1319, un Podestà di valle, nominato dal signore di Verona, pronunciò una prima sentenza in nome suo.
Era il riconoscimento ufficiale che il Vicario Imperiale era di fatto il nuovo padrone. Per dimostrare la comunanza (anche con matrimoni e accordi commerciali) tra i Federici e Cangrande lo stemma scaligero fu scolpito accanto a quello dei Federici sul portale del castello di Gorzone.
Per un ventennio la situazione rimase abbastanza "calma" ma decisamente più debole dovette essere, sulla Valle Camonica, il potere di Mastino della Scala (*), dato che nel 1337, il Consiglio di Valle, non volendo più essere assoggettato formalmente al nuovo Signore Veronese, mandò ambasciatori a Milano, ad Azzone Visconti, per sollecitarne la protezione.
- 1334: 18 giugno: a Grevo e Braone: Venezia impone alle due comunità di pagare imposte dalle quali erano state esentate in precedenza.
MASTINO II della SCALA
(1308 - 1351)
Conquistò Brescia, Parma e Lucca, la coalizione formata da Venezia, Firenze e Milano lo fermò con la pace di Venezia il 29 gennaio 1339.
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Azzone Visconti però morì poco dopo e a lui succedette Bernabò, che, combattuto dai suoi stessi famigliari, dovette subire la divisione della vasta Signoria viscontea con gli altri nipoti di Azzone, Matteo II e Galeazzo II.
Bernabò però, che conosceva bene la situazione in valle poiché, nel 1340, vi era stato alla testa delle truppe milanesi vincitrici, appena insediato, favorì nuovamente, con un decreto del 1339, l'autonomia dei Camuni (e di altre zone) rispetto a Brescia, e così riuscì, come era nelle sue intenzioni, a controllare e dominare meglio, anche con le sue milizie armate, le varie fazioni in lotta nell'intera Lombardia orientale che voleva sottomettere e aggregare alle sue terre, sottraendole alla influenza dei signori veronesi.
La Valle Camonica divenne così di fatto parte integrante del Ducato di Milano tanto che nel 1354, per diritto di successione, venne assegnata proprio a Bernabò Visconti, colui che, come ricordato sopra, nel 1340 l'aveva completamente assoggettata, con le armi, alla dominazione viscontea.
Non tutto però era pacificato e le varie fazioni locali erano sempre in aperto contrasto violento tra loro, tanto che nel 1361, Bernabò dovette mandare in Valle altre sue truppe per spegnere una rivolta attizzata dai Guelfi camuni che fomentavano il malcontento, supportati dal continuo appoggio di Brescia, ma che non erano più riusciti ad affermare e allargare il proprio potere. Ancora una volta la repressione fu durissima e alcuni nobili "Guelfi" e molti loro alleati, vennero giustiziati in questa ennesima "stabilizzazione".
Ma fu per poco: con miglior fortuna, ma con scarsi risultati sul piano politico, i rivoltosi ritentarono la sorte ribellandosi prima nel 1373, e poi nel 1378. Molto sangue camuno arrossò in quegli anni le terre di molte contrade fino a quando, finalmente, su istanza del Duca milanese, si giunse ad una tregua fra Guelfi e Ghibellini.
La cessazione delle ostilità fu trattata nel castello di Cimbergo, il 12 marzo 1378, dietro le insistenze dello stesso Bernabò.
Ma anche questa tregua non durò che due mesi: poi altre lotte, faide, vendette, scorribande, che erano regolarmente seguite da altre inutili pacificazioni, travagliarono la valle negli ultimi decenni di quel triste e violento secolo.
Viste dunque inutili le varie trattative e i numerosi ordini e "editti e ordinanze ducali" che Milano imponeva e di cui però nessuno teneva contro ed eseguiva, per pacificare le fazioni in lotta venne concordato un incontro solenne: la data fu fissata per il 31 dicembre 1397 sul famoso ponte Minerva a Breno.
Fu l'incontro "politico" più rilevante della storia dell'intera Valle Camonica.
Al centro del ponte, paludati negli abiti solenni delle grandi occasioni si posero i rappresentanti del Duca di Milano e il Podestà di Valle, Giacomo Malspina.
Sulla sponda destra dell'Oglio, all'imboccatura del ponte, presero posto i Guelfi camuni alla cui testa era Baroncino Nobili di Lozio.
Erano su quella sponda i rappresentanti delle comunità e dei comuni "Guelfi" della valle: Borno, Lozio, Prestine, Breno, Niardo, Braone, Losine, Cimbergo, Ceto, Grevo, Cevo e Saviore.
Sulla sponda sinistra erano invece riuniti i nobili Ghibellini (quasi tutti della famiglia Federici) e i rappresentanti delle comunità che appoggiavano questa fazione: Erbanno, Gorzone, Angolo, Esine, Malegno, Cividate, Berzo (per la bassa valle) e Cerveno, Sonico, Incudine, Monno, Edolo, Corteno, Mù, Vezza, Vione e Dallegno (per l'alta valle).
Tutti erano profondamente compresi nella solennità dell'evento e tutti erano vestiti con abiti sontuosi, degni della circostanza.
Le armi lunghe e anche i pugnali erano vietati e banditi e solo le guardie del podestà portavano picche da parata.
Dopo le preghiere propiziatorie, le benedizioni di entrambe le parti, iniziò un lungo e prosaico dibattito che comunque si risolse in un "solennissimo accordo" in cui tutti giurarono una "stabile e perfetta concordia e pace".
Si giurò altresì, dalle due parti, di restituire "ai veri" proprietari le terre e i beni rubati e vennero chiamati a supremi garanti del giuramento il Vangelo e le Sacre Scritture.
Un capitolo a parte prevedeva un altro giuramento con la promessa di "licenziare tutte le bande armate" e di radere al suolo e non più ricostruire i fortilizi atti a nascondere e ospitare armati.
Tutti apposero le loro firme, i loro sigilli o le loro sigle e tutti ri-giurarono fedeltà al patto: era stata siglata la "Pace di Breno" detta anche "l'accordo del ponte Minerva".
La pace durò per circa sette anni…
Nel 1403 morì Gian Galeazzo Visconti e i suoi successori ripresero ad appoggiare apertamente le ambizioni dei Ghibellini Federici.
Nel 1404 Gian Maria Visconti, nuovo Duca di Milano, infeudò Brescia e la Valle Camonica a Giovanni Piccinino Visconti. Questa mossa politica fu messa in atto per contrastare il crescente potere di Pandolfo Malatesta, che era stato infeudato dagli stessi Visconti come Signore di Brescia, ma che poi si era reso indipendente e era divenuto un temibile avversario degli stessi Duchi di Milano.
Approfittando della estrema confusione che regnava nelle terre bresciane, le fazioni camune in lotta per il predominio della valle, nuovamente su fronti inconciliabili, visti gli interessi personali delle varie casate, si appoggiarono ai Visconti per la parte ghibellina e al Malatesta per la parte guelfa.
- 1404: 29 luglio a Demo: il borgo è incendiato dai Guelfi bergamaschi che risalgono la Valle Camonica; raggiunti da un gruppo Ghibellini pure bergamaschi ingaggiano un combattimento durato tre giorni.
- 1406: 10 agosto a Brescia: Pandolfo Malatesta, Signore di Brescia, istituisce la zecca chiusa dal 1337; vengono coniati "grossi" d'argento, soldini, sestini, quattrini e denari.
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Stemma araldico della famiglia Federici
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Un significativo esempio dell'asprezza di queste lotte si ebbe nella notte di Natale del 1410, quando molti armati, guidati da Giovanni Federici di Mù, penetrati nel castello posto sopra l'abitato di Villa, sterminarono tutti i componenti della famiglia dei Nobili di Lozio, compreso il famoso Baroncino, capo della parte guelfa.
Della potente, rapace e avventurosa famiglia dei Nobili che, fino ad allora, aveva avuto una grande influenza politica ed economica (specie per i forni fusori che gestiva) nella media valle, non rimasero che due ragazzi che, al momento della strage, non erano nel castello avito, ma si trovavano per studi a Bergamo e a Brescia.
Da allora i Nobili di Lozio scomparvero dai vertici della vita politica della Valle Camonica.
La notizia della strage di Lozio giunse fino a Milano e a Brescia e, approfittando dello sdegno di questo efferato eccidio, Pandolfo Malatesta, proseguendo nei suoi piani di conquista della Valle Camonica, fece affluire delle sue truppe in alcune rocche della valle.
- 1411: 27 giugno: a Mu: G. Maria Visconti concede in feudo a Giovanni Federici di Erbanno la rocca con giurisdizione sui territori di Edolo e Dalegno.
Saldamente attestato con i suoi armati in alcune terre e castelli a lui fedeli, il Malatesta, spalleggiato ora direttamente anche da Venezia, che aveva allargato la sua espansione territoriale e di influenza politica verso ovest raggiungendo le coste del lago di Garda, sembrò in un primo tempo avere la meglio sulle schiere milanesi.
- 1418: 20 ottobre: a Chiari: una folla esultante accoglie Papa Martino V, accompagnato da undici cardinali, che visita il borgo fortificato durante il viaggio di ritorno dal Concilio di Costanza.
FRANCESCO BUSSONE detto il CARMAGNOLA
(Torino 1380 Venezia 1432) Condottiero: fu al servizio di Facino Cane signore di Novara, Alessandria e Piacenza e poi della sua vedova Beatrice di Tenda, andata poi sposa a Filippo Maria Visconti. Divenne uno dei principali esecutori del programma espansionistico del duca di Milano, occupando, dal 1415 al 1420, diverse città della Lombardia e nel 1421 la grande città di Genova dove fu nominato Governatore Generale dal 1422 al 1424. Sposò Antonia figlia di Pietro Visconti. Cacciato da Filippo Maria, passò al servizio della Serenissima Repubblica Veneta e svolse un importante ruolo nella costituzione della lega antiviscontea che nel 1425-26 riunì oltre a Venezia anche Firenze, Ferrara, Mantova, Monferrato e Savoia. Stravinse, sulle truppe di Milano, a Maclodio nel 1427 ma dopo la vittoria Venezia intravide un riavvicinamento tra il Carmagnola e il Visconti e con la scusa di un invito a palazzo Ducale, fu arrestato, processato e decapitato.
| La lotta, sempre molto accesa e violenta, rimase incerta per quasi un decennio, fino al 1419 quando, per diretto intervento delle truppe ducali di Milano, allora guidate dal Carmagnola (*), la Valle Camonica ritornò nell'orbita del potere dei Visconti.
Ma la presenza milanese fu, ancora una volta, di breve durata.
Nel 1426 le truppe veneziane conquistarono Brescia, la sua piazza e il suo castello e, nel 1427, vennero inviate truppe in Valle Camonica al comando di Giacomo Barbarigo che, assumendo anche la carica di Capitano di Valle, asservì alla Serenissima la maggior parte del territorio camuno.
Il 30 dicembre 1426: la città di Brescia e la provincia, esclusa la Valle Camonica, vennero ceduti dai milanesi Visconti a Venezia col trattato stipulato a Ferrara.
Venezia, nelle sue campagne di conquista sulla terraferma, entrò così in possesso anche delle altre vallate alpine del Veneto e della Lombardia orientale, comprese le sue tre grandi valli bresciane: Val Trompia, val Sabbia e Valle Camonica.
Il 18 aprile 1428, con la nuova pace di Ferrara i milanesi Visconti furono obbligati a riconoscere a Venezia il dominio sulla città e sulla provincia, compresa la Valle Camonica e il 1° luglio 1428 Venezia riconobbe la Valle Camonica come "terra separata", governata da un proprio Podestà con ampi poteri, anche se sempre soggetti alla verifica degli organismi repubblicani istituiti a Brescia.
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