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Il leone di San Marco: amato e temunto simbolo della Serenissima Repubblica Veneta
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Nel 1426 fu convocato un Congresso a Ferrara ma fu solo l'ultimo, estremo e fallimentare tentativo di trovare una soluzione diplomatica per comporre i numerosi, contrastanti e inconciliabili interessi territoriali tra il Ducato di Milano e la Serenissima Repubblica Veneta.
Sia in Lombardia che in Veneto apparve subito inevitabile lo scontro armato fra le similari politiche di espansione e di primariato tra le principali e più importanti Signorie del nord Italia. Da una parte il Ducato di Milano di Filippo Maria Visconti (*) e dall'altra quello della Repubblica di San Marco, anche lei desiderosa di allargare, almeno fino al confine naturale dell'Adda, i propri possedimenti sulla terraferma che inglobavano già tutta la pianura veneta fino alle sponde del lago di Garda.
FILIPPO MARIA
VISCONTI (1394-1447)
Ultimo erede diretto della famiglia Visconti che aveva preso il dominio di Milano nel 1277 e si era fregiata del titolo Ducale dal 1395. Dopo le sue sconfitte nelle guerre con Venezia dovette cedere tutta la Lombardia orientale, Genova, la Romagna e la pianura del Casentino. Morto senza eredi maschi si impadronì del Ducato Francesco Sforza che aveva sposato Bianca Maria (1425-1468) figlia naturale di Filippo Maria.
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Le ostilità vennero dichiarate ufficialmente aperte il 3 Marzo 1426.
Comandante generale delle forze veneziane fu nominato uno dei più famosi Capitani di ventura di quel tempo: il conte di Carmagnola. Questi solo un anno prima aveva abbandonato, dopo aspri dissidi e violente rimostranze, proprio il servizio del Duca di Milano, che non voleva nominarlo Capitano Generale di tutte le truppe viscontee, malgrado i grandi servizi resi negli ultimi dieci anni.
Un voltafaccia abbastanza consueto per quei tempi (ne vedremo altri in questo capitolo di storia) e che non fu visto o vissuto con particolare scalpore alla corte milanese, anche se lo stesso Carmagnola fosse legato anche da stretti vincoli di parentela con il Duca Filippo Maria Visconti, avendo da poco sposato Antonia figlia di Pietro Visconti, fratello di Filippo.
L'inizio delle operazioni militari in territorio Lombardo fu subito favorevole ai veneziani che numericamente e per armamenti erano superiori alle truppe milanesi.
Il Carmagnola entrò con molta facilità in Brescia, non incontrando alcuna difesa organizzata, si acquartierò nella cittadella fortificata e nel munito e possente castello che aveva respinto, in anni precedenti, numerosi assalti di forze ben maggiori e più agguerrite.
La città fu praticamente consegnata alle truppe venete, senza colpo ferire, dagli stessi notabili bresciani che appoggiarono i nuovi padroni precipitandosi a servire la Serenissima Repubblica, stimolati da ambizioni personali ma specialmente da violenti e non sopiti risentimenti verso chi era stato favorito, dalla Signoria Milanese, nella scalata sociale ed economica a posti di potere di primo piano in Brescia e provincia.
Gli odi profondi tra le principali famiglie nobiliari bresciane furono dunque il perno principale per la conquista della città e il passaggio alla dominazione Veneziana. Il Carmagnola seppe intelligentemente approfittare delle divisioni interne della nobiltà e trasse vantaggio da un certo favore che Venezia già godeva, fra i diversi strati della popolazione, più per sentito dire che per esperienza diretta. Fece circolare con insistenza la voce che Venezia, in caso di vittoria sui Milanesi, avrebbe donato un'ampia libertà al popolo, avrebbe concesso privilegi al commercio, esenzioni da tasse e un più mite e buon governo della Giustizia, un perdono per i reati politici commessi ma anche la riconferma dei privilegi dei nobili e dei notabili.
Queste promesse, che furono, per verità storica, anche in buona parte mantenute in seguito, portarono all'ingrossamento del partito favorevole a Venezia e al suo governo.
Indubbiamente la Repubblica Veneta, per quei tempi, era un esempio di illuminato e liberale governo e, a paragone di quello milanese, che rappresentava la tipica e ormai odiata società medievale, era molto popolare specialmente tra le masse più povere e nelle classi medie.
La città non era stata però completamente conquistata e delle truppe milanesi, al comando personale del Capitano Generale Francesco Sforza, che era giunto in zona pochi giorni dopo l'ingresso del Cramagnola, riuscirono a mantenere alcune posizioni fortificate, pur chiuse da fossati e da terrapieni battuti Continuamente dalle bombarde, bombarole e colubrine venete.
Il Visconti, nel frattempo, aveva richiamato d'urgenza dalla Toscana e dalla Romagna le sue truppe al comando di Angelo della Pergola, di Niccolò Piccinino e di Guido Torello e, nell'attesa che i suoi soldati si riunissero a Parma, stipulò frettolosamente un trattato di pace con Alfonso di Aragona.
Contemporaneamente intensificò gli appelli di soccorso all'imperatore Sigismondo e tentò accordi segreti con Amedeo VIII di Savoia (*).
AMEDEO VIII il Pacifico
(Chambery 1383 - Ginevra 1452)
Conte e poi dal 1391 al 1434 Duca di Savoia. Conquistò il Ginevrino, il Vaud, Nizza, Vercelli e il Valentinois riunendo la Savoia e il Piemonte. Con molteplici alleanze e matrimoni si legò alle più potenti signorie Italiane. Nel 1430 promulgò gli Statuti della Savoia. Nel 1434, dopo una profonda crisi spirituale, si ritirò in convento sul lago di Ginevra. Durante lo scisma di Occidente fu eletto Papa dal Concilio di Basilea in contrapposizione a Eugenio IV. Si insediò, nel 1440, col nome di Felice V, ma nel 1449 abdicò riconoscendo la supremazia del papato di Roma. Fu l'ultimo
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Il Duca Sabaudo, che fin dall'inizio delle ostilità, aveva avuto con il Carmagnola contatti segreti, stava già concludendo, allo stesso tempo, negoziati e larghe intese con la stessa Venezia e con Firenze per una rinnovata lega ai danni di Milano e di Filippo Maria Visconti.
L'alleanza tra Venezia ed il Savoia fu siglata ufficialmente l'11 luglio 1426.
Amedeo aveva aderito alla Lega convinto dalle allettanti, anche se dopo si riveleranno fallaci, promesse dei rappresentanti Veneti.
Le parti in campo, spinte dalla necessità di assicurarsi gli alleati più forti, sottoscrissero nei trattati delle ampie concessioni territoriali e Amedeo VIII, futuro (anti)papa Felice V, avrebbe ottenuto, tra i patti dell'alleanza, tutto il territorio milanese fino all'Adda (sogno che Casa Savoia invece realizzerà solo dopo più di 400 anni !).
Sarebbe stata una grande espansione del territorio Sabaudo, ma Venezia, che tendeva anch'essa a raggiungere quel confine naturale e ben difendibile (l'Adda, nel tratto di pianura tra le terre milanesi e quelle bergamasche, era, sia per la larghezza del corso che la portata d'acqua, un tratto confinario di indubbia rilevanza strategica), non poteva certo accettare siffatto ingrandimento.
Non ottenendo quel confine, la Serenissima non avrebbe mai permesso la totale scomparsa dello Stato milanese che fungeva da importante cuscinetto tra il Ducato di Savoia e la stessa Repubblica.
Come accadeva spesso in quei tempi, in cui i trattati erano poco più di carta straccia e sui cui patti, articoli e promesse solenni, tutti sapevano di non poter contare, la Serenissima Repubblica di San Marco finse di accogliere, anche se con una certa e ben mascherata riluttanza, le richieste del nuovo confederato, pur di ottenerne l'aiuto militare, ma col fermo e chiaro proposito di non mantenere l'accordo una volta terminato con esito, per lei favorevole, la guerra in corso.
Filippo Maria Visconti, visti perciò vani i tentativi diplomatici per dividere i suoi nemici confederati e, spinto anche dalle inconsistenti ma costosissime e sterili iniziative militari del suo esercito, si vide costretto ad aprire delle trattative di pace.
A prendere l'iniziativa, per una tregua e a far da mediatore fu l'allora Pontefice Martino V che non vedeva di buon occhio che una sola Signoria potesse avere la prevalenza sulle altre in una Italia in cui, solo l'equilibrio della forza dei vari Potentati in campo permetteva che nessuno potesse divenire il "padrone" della penisola.
La diplomazia vaticana si mise all'opera per far sì che si mantenesse quel rapporto di forze che era il principale fattore di stabilità (tra la grande instabilità di quei tempi) nell'intero Stivale.
A questa azione pacificatoria fu subito favorevole e consenziente anche l'imperatore Sigismondo (*) che aveva col Visconti, in precedenza, stretto un patto di alleanza politico militare ed aveva assicurato e giurato di intervenire direttamente nelle faccende italiane e di appoggiare le mire espansionistiche di Milano… purchè questo restasse vassallo dell'Impero e fornisse truppe e salmerie all'esercito dello stesso Sigismondo nelle sue operazioni in Italia.
(*) SIGISMONDO di Lussemburgo (Norimberga 1368 - Znaim 1437): Re d'Ungheria dal 1387 e di Boemia dal 1419, Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1411. Figlio di Carlo IV re d'Unghera. Nel 1387, sposando Maria, figlia di Luigi il Grande, fu eletto re di Germania nel 1410. Donò la marca di Brandeburgo al Grande Elettore Federico di Hohenzollern per l'aiuto importante datogli nella sua molto controversa elezione imperiale. Fece convocare, nel 1414, il Concilio di Costanza, per risolvere lo scisma d'Occidente. Concesse un salvacondotto imperiale al teologo Hus perché potesse difendersi ma poi acconsentì alla sua esecuzione e per questo i boemi gli rifiutarono, dal 1419 al 1436, la corona di Boemia che gli spettava dopo la morte del fratello Venceslao.
SIGISMONDO di Lussemburgo
(Norimberga 1368 - Znaim 1437)
Re d'Ungheria dal 1387 e di Boemia dal 1419, Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1411. Figlio di Carlo IV re d'Unghera. Nel 1387, sposando Maria, figlia di Luigi il Grande, fu eletto re di Germania nel 1410. Donò la marca di Brandeburgo al Grande Elettore Federico di Hohenzollern per l'aiuto importante datogli nella sua molto controversa elezione imperiale. Fece convocare, nel 1414, il Concilio di Costanza, per risolvere lo scisma d'Occidente. Concesse un salvacondotto imperiale al teologo Hus perché potesse difendersi ma poi acconsentì alla sua esecuzione e per questo i boemi gli rifiutarono, dal 1419 al 1436, la corona di Boemia che gli spettava dopo la morte del fratello Venceslao.
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L'Imperatore fu però costretto, di mese in mese, malgrado le Continue e incessanti richieste di aiuto, suppliche e ambascerie del Visconti, a rimandare la sua calata in Lombardia a causa della grande minaccia turca ai confini sud orientali del suo Impero in Valacchia e anche della sanguinosissima rivolta degli Ussiti, nel cuore del suo Impero, in Baviera.
Secondo i piani studiati dagli stati maggiori del Visconti e di Sigismondo, le truppe imperiali proprio passando per la Valtellina e poi per la Valle Camonica, sarebbero dovute giungere a Brescia e poi dilagare nella pianura Veneto Romagnola. Era questa una delle vie più battute dagli eserciti imperiali quando facevano le loro calate in Italia.
La tregua voluta da Martino V, malgrado alcune clausole già sottoscritte e stipulate, non pose però fine ai combattimenti, anzi a prestare man forte alle schiere milanesi, che erano ancora attorno a Brescia, divenuta "il punto cruciale della guerra", sopraggiunsero numerose truppe fiorentine al comando di Niccolò da Tolentino e di altri capitani.
Intanto gli eserciti già schierati in capo, però non fermavano le proprie operazioni belliche, anzi Gianfrancesco Gonzaga ed il Commissario veneto Andrea Marcello dalla Riviera, con alcune manovre dei propri armati, avevano esteso l'occupazione territoriale, anche con saccheggi e violenza sulla popolazione, lungo il corso del basso Oglio fino a Quinzano.
In breve tempo, nell'estate di quel 1426, passarono dalla parte di Venezia, senza opporre alcuna resistenza a delle piccole avanguardie venete, la Valle Trompia e la Val Sabbia. In queste valli le simpatie per la dominazione Viscontea si erano definitivamente perse, alienate soprattutto dal mal tollerato rilevante aumento del già pesante dazio sulle "ferrarezze".
La lavorazione del ferro e delle sue leghe, anche e specialmente per scopi bellici, era l'attività principale dell'industria metallurgica nelle nostre valli e fu logico che la speranza di tasse minori o addirittura sgravi o esenzioni fiscali (promesse dagli infiltrati veneti) portasse dalla parte di Venezia le principali famiglie che avevano grandi interessi nell'industria della lavorazione dei metalli. Le due valli bresciane (Trompia e Sabbia) divennero favorevoli a Venezia anche perché questa aveva promesso (e poi mantenne in parte) un'ampia autonomia politico-amministrativa.
La Valle Camonica, anche per la sua collocazione geopolitica di territorio di confine (con la bergamasca e la Valtellina, i Grigioni e il centro Europa), rimase invece legata all'area di influenza viscontea e l'11 Giugno 1426 i rappresentanti del Duca di Milano si incontrarono a Bovegno con quelli della Valle Camonica. I Delegati camuni, si dissero preoccupati della minaccia incombente di una invasione veneta e delle eventuali (sicure) ritorsioni che le truppe del Carmagnola avrebbero messo in atto durante e dopo un'eventuale occupazione territoriale. Fu così pattuito e sottoscritto un accordo in cui si dichiaravano reciproche garanzie di "avviso" in caso di pericolo, in aggiunta ad altri patti di mutua assistenza.
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Carta geo-politica della espansione di Venezia sulla terraferma
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I princìpi di libertà e di pace in Italia, pomposamente proclamati e sbandierati dalle due Leghe tosco-veneziana del 4 Dicembre 1425 e tosco-sabaudo-veneziana dell'11 luglio 1426, in effetti, malamente nascondevano quel complesso gioco di grandi interessi (chiaramente) divergenti che in poco tempo inasprirono i labili rapporti tra i confederati.
Di questo stato generale di incomprensioni, invidie, timori e sotterfugi ne seppe ben approfittare il Visconti per guadagnare tempo, per rinsaldare insicure alleanze, rinforzare le sue truppe e inviare ancora ambasciatori al solito Sigismondo con pressanti appelli di intervenire al più presto.
Iniziò una vasta e ipocrita campagna di azioni diplomatiche, ben sapendo che i Fiorentini ed Amedeo VIII preferivano, all'ampliamento territoriale di Venezia, mantenere in vita il Ducato milanese, dato che la presenza di questo stato era da baluardo e cuscinetto all'espansione veneta verso ovest e sud-ovest (Lombardia e centro nord Italia).
Lo stesso Papa Martino V (*) auspicava, e la sua potente diplomazia svolse un ruolo essenziale in questa direzione, quell'equilibrio politico che poteva essere assicurato solo dalla pari debolezza o dall'equità delle forze di tutti i contendenti.
(*) MARTINO V - Oddone Colonna: Genazzano 1368 - Roma 1431 - Papa dal 1417 al 1431. Eletto durante il Concilio di Costanza, dopo aver inizialmente (e per facilitare la sue elezione al soglio di Pietro), accettato le dottrine conciliaristiche si oppose fermamente alle stesse che limitavano il potere della supremazia papale. Avviò con forza molte azioni politiche per porre fine allo scisma d'Occidente ottenendo, nel 1429, la rinuncia dell'antipapa Clemente VIII.
MARTINO V - Oddone Colonna
Genazzano 1368 - Roma 1431
Papa dal 1417 al 1431. Eletto durante il Concilio di Costanza, dopo aver inizialmente (e per facilitare la sue elezione al soglio di Pietro), accettato le dottrine conciliaristiche si oppose fermamente alle stesse che limitavano il potere della supremazia papale. Avviò con forza molte azioni politiche per porre fine allo scisma d'Occidente ottenendo, nel 1429, la rinuncia dell'antipapa Clemente VIII.
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Il Visconti, pur vedendo minacciate sempre più direttamente, dalle truppe venete, le città di Bergamo e di Crema e le province meridionali ed occidentali del suo Ducato, desiderava che le trattative di pace andassero per le lunghe, sempre nella speranza che l'imperatore Sigismondo si decidesse a scendere in Italia. I negoziati vennero più volte interrotti con le scuse diplomatiche più banali e alla fine Venezia, che nel frattempo aveva Continuato ad ammassare truppe al confine con Milano, per non venire abbandonata dai suoi timorosi alleati, fu costretta a limitare (e di molto) le sue richieste iniziali.
Nelle clausole del nuovo trattato era fissato che il Visconti cedeva a Venezia Brescia e la bassa bresciana fino al Garda.
Il Duca di Milano non si voleva però assolutamente piegare a cedere la Valle Camonica (sua principale fornitrice di armature e armi bianche e via di raccordo con il centro Europa e l'Impero) e intorno al possesso della vallata dell'Oglio e del Sebino si concentrò a lungo la discussione generale.
Fu solo il 30 dicembre (1426) che nel monastero di San Giorgio in Venezia, fu concluso e firmato un accordo che vedeva al tavolo delle trattative da una parte i plenipotenziari della Serenissima, di Firenze, dei Savoia e dall'altra i rappresentanti del Duca di Milano.
Dal testo di questo ennesimo accordo risultava tra l'altro, in modo enfatico e prosaico, che era "stabilita una perpetua pace" tra le parti.
Il Visconti rinunciava, a favore di Venezia, a Brescia ed a tutto il suo territorio, esclusa però la Valle Camonica.
La sponda nord del lago di Garda con Riva e l'importante castello di Tenno rientravano in possesso del vescovo di Trento. Iseo, Palazzolo, Pontoglio, Chiari ed Orzinuovi, luoghi fortificati che erano ancora in possesso dei milanesi, si sarebbero dovuti consegnare integri ai Veneziani entro 25 giorni dalla firma del trattato, il resto del territorio che doveva passare sotto Venezia avrebbe accolto le truppe della Repubblica entro trenta giorni.
Nei casi controversi veniva accettato l'arbitrato del cardinale di Santa Croce, delegato direttamente dal papa Martino V.
Il Gonzaga (*), Signore di Mantova, che era stato uno dei principali protagonisti delle azioni militari nella bassa Lombardia e il più fedele alleato della Serenissima, avrebbe conservato le terre conquistate nel corso della guerra, a nord-ovest del suo Marchesato, ma non quelle che, a confine con i suoi possedimenti a nord del Po, venivano cedute direttamente da Milano a Venezia.
GONZAGA
GIANFRANCESCO
(1407 - 1444)
Ottenne il titolo di Marchese di Mantova e seguì una oscillante, ma proficua, per il suo casato, politica di alleanze ora con Venezia ora con il Visconti.
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Tutto ciò ruotava attorno al formale impegno che la Repubblica Veneta garantisse la conservazione della pace, cioè che non sarebbe scesa in campo con le sue armate, nell'attesa della consegna, ai suoi delegati, del territorio
bresciano a lei assegnato.
Nel gennaio del 1427 e nel mese successivo il Carmagnola pose il suo comando generale in città, a Brescia. Le truppe venete tuttavia non rimasero ferme: si stanziarono nelle Valli Trompia e Sabbia e, con un forte Contingente di armati, si insediarono anche a Iseo.
Questa importante "piazza" era già stata precedentemente occupata da consistenti truppe dell'armata veneziana ma ancora, sia in paese che nelle campagne circostanti, erano presenti delle rilevanti forze militari fornite e pagate dalle famiglie legate da vincoli di parentela ed economici ai potenti ghibellini Oldofredi.
Di questa stirpe e in questo periodo il più famoso rappresentante era certamente Giacomino degli Isei. La nobile famiglia Oldofredi (gli Isei avevano "preso" questo nome), che aveva vasti possedimenti nel basso Sebino e in Franciacorta, era legata, anche direttamente, attraverso diverse parentele, ai ricchissimi Suardi di Bergamo ed agli stessi Visconti.
Giacomino, che nel 1407 aveva sposato Franceschina, figlia di Baldino Suardi, contrariamente ad altre famiglie bresciane (Gambara, Palazzo, Emili, ecc) che si erano facilmente piegate al nuovo governo Veneto, rimase sempre fedele al Duca milanese dal quale, in cambio, ottenne onori, investiture e privilegi. Giacomino che, con Estore Visconti, si era opposto, con successo, alle truppe condotte da Pandolfo Malatesta, ebbe vari e importanti incarichi militari, diplomatici e politici.
Era stato per merito suo se il fratello Giovanni aveva ricevuto nel 1415, dall'imperatore Sigismondo, l'investitura della signoria di Iseo. Giacomino era stato presente nel 1421, in Brescia, al giuramento di rinnovata sudditanza bresciana a Filippo Maria Visconti, nel cui nome combatté poi contro i feudi di Riva e di Tenno al confine tra la Gardesana e il Trentino.
Per la sua fedeltà e i suoi numerosi servigi ebbe la possibilità di entrare a far parte della Corte Ducale milanese e, segno di grande prestigio e fiducia, fu inviato più volte alla corte imperiale, in Liguria, in Toscana ed in altre parti d'Italia come ambasciatore personale del Visconti.
Questo fidato cortigiano fu anche legato a molte delle vicende politiche e diplomatiche più importanti dell'epoca tanto che nel 1426 fu comandato nuovamente presso l'imperatore Sigismondo per sollecitarne gli aiuti (promessi e non mantenuti) a favore del Visconti.
Le truppe del Carmagnola, dopo aver occupato Iseo e il basso Sebino bresciano, fino al confine naturale dell'Oglio, si spinsero più avanti, verso nord, lungo la riviera Sebina orientale e entrarono in Valle Camonica passando per Pisogne, Artogne e Gianico. Risalendo lungo l'antica romana via Veleriana conquistarono l'importante castello di Montecchio, posto alla sommità della collina del Monticolo, che presiedeva il ponte sull'Oglio e che era piazza molto importante nella difesa di tutta la bassa Valle Camonica e per i collegamenti con la Valle di Scalve.
La marcia delle truppe venete proseguì fin sotto le mura del munito castello di Breno (*).
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Castello di Breno
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Il castello di Breno è stato già citato in queste pagine e lo sarà ancora molte volte in seguito. E' stato parte importante della storia della Valle Camonica e ho preso spunto da questa nota per riproporre in modo integrale e con estrema fedeltà al testo, la descrizione di questo maniero che Lorenzo Ercolani fa nel capitolo XVI del suo famoso romanzo "I Valvassori Bresciani", primo volume dell'epopea bresciana di Leutelmonte:
"…. Un tempo facea parte della provincia bresciana la Valcamonica, paese spartito per lo lungo dall'Oglio e serrato fra due catene di monti che sono una Continuazione dell'Alpi Rezie. La valle è lunga miglia cinquanta contando dal monte Velo che è nella montagna del Tonale. L'ampiezza sua è di circa sei miglia, e più e meno a seconda che i monti che la fiancheggiano o s'avvicinano o divergono. Sino ai tempi di Carlo Magno tenne il nome dal fiume che l'attraversa e si chiamò Ogliola, poscia si volle denominarla con quello dei popoli che primi l'abitarono, cioè i Camuni, e si disse Camonica. Fu della Valle costantemente capoluogo Breno grossa terra situata in sulla sinistra sponda dell'Oglio e al piede di un monte che s'innalza acuto e le sovrasta con una cima pietrosa. Veggonsi lassù gli avanzi di un castello e due torri alle quali la tradizione serbò i nomi di Guelfa e Ghibellina. Il forte, di forma triangolare e colle due torri negli angoli, sorgeva sulla vetta pietrosa del monte: il lato anteriore guardava sopra un'angusta spianata che dava alito all'unica porta del castello, difesa da un ponte levatoio e da una profonda fossa che non proteggeva il castello se non da questo unico lato, perché gli altri due, piantati rasente il ciglione del monte, ne aveano a difesa tutta la profondità. Sulla porta stava una torricciuola rotonda, larga e bassa, dalla quale dominavasi e il monte e il piano soggetto. Superata la volta massiccia della porta, si riesciva sotto un portico di arcate basse e sostenute da pilastri rotondi, grossi quasi quanto alti. Il porticato non corrispondeva al di dentro se non a quel lato in che aprivasi la porta del castello, dietro il lungo del quale erano parecchie stanze terrene, che pigliavano luce da alcune finestrelle lunghe e strettissime aperte nel muro di cinta. Innanzi al portico stava una corticella, che seguiva necessariamente la forma triangolare del castello; ma nel fondo era mozzata, perché il fabbricato dei due lati non vi si univa ad angolo, sì che assumeva la figura di un quadrilatero. A sinistra era l'abitazione del castellano; una cucina ampissima, una stanza Contigua senza luce donde passavasi in un'altra che metteva in un orticello. L'abitazione del castellano avea pur anche un piano superiore, al quale salivasi per una scaletta di pietra che sorgeva dalla cucina; ma le stanze erano tanto basse che appena vi si poteva stare in piedi; servivano a riporvi le provvisioni in tempo di guerra. Nel terzo lato, che rimaneva a destra dell'entrata, era l'arsenale. Riesciva il castello fortissimo e per la robustezza delle mura e pel luogo eminente in che era piantato, non salendovisi se non da una parte e per una piccola strada, o, diremo meglio, per una scala intagliata nella pietra del monte. Non vi era adito a venirvi d'altra parte se non arrampicandosi su pei burroni e movendo attraverso il folto delle querce che coprivano tutto il monte sino a due terzi della sua altezza. Era una rocca che avea voce d'inespugnabile e che avea tenuto fronte ad alcuni generali di Carlo Magno, quando Brescia tolse a provare al vincitore di Desiderio che di così facile vittoria egli non sarebbe andato lieto, se in Italia fossero state più di una Brescia. Sebbene da quei giorni in poi nel castello di Breno più non fossero stati fatti d'armi, la città vi manteneva un piccolo presidio e un castellano che si avea quella carica a titolo di beneficio, giacchè non era ad altro obbligo legato se non a quello di vivere lassù."
Qui, pur ponendo assedio, si fermarono in attesa di ulteriori ordini del capitano generale.
A questo punto in Valle Camonica e lungo le sponde del Sebino coesistevano, a stretto contatto, le due Signorie rivali: quella Veneta (di tipo essenzialmente militare con truppe di occupazione) e quella Viscontea con un Capitano del lago ed un Vicario a Lovere che avevano anche funzioni di presidio civile. Questo alquanto strano stato di vicinato era sottoscritto negli accordi presi durante l'ultima tregua e doveva rimanere tale fino allo scoppio delle prossime ostilità.
A Brescia, giunta notizia dell'accordo e cessato, per ora, il timore di un ritorno offensivo visconteo, si diffuse una certa euforia e vi furono i soliti roboanti discorsi dei notabili locali e molte messe solenni per la pace firmata.
Ma la tregua, come tutte le tregue dell'epoca, basate solo sulla momentanea debolezza di un contendente e sulla volontà di non rispettare i patti sottoscritti ma solo di guadagnare tempo e vantaggi strategigi o politici, ebbe breve durata.
Il trattato di Ferrara, ancora una volta, pur condito da solenni promesse e giuramenti di rispettare i patti, trovò esecuzione soltanto nelle sue parti secondarie perché Filippo Maria, il cui prestigio a livello internazionale e interno, era rimasto profondamente scosso, già si preparava a recuperare le terre che aveva perso sul campo di battaglia e aveva dovuto cedere ai suoi pericolosi vicini e rivali.
Avvalendosi dell'appoggio imperiale e della neutralità di Amedeo VIII di Savoia, col quale nel frattempo aveva portato avanti approcci di buon vicinato, offrendosi di stringere con lui anche vincoli diretti di parentela, il Visconti confutò il trattato e le sue clausole territoriali.
Allorché si trattò di consegnare i castelli bresciani, secondo gli accordi sottoscritti, il Duca di Milano fece comunicare agli ambasciatori di Venezia e del Gonzaga, che l'imperatore Sigismondo gliene aveva impartito il divieto e come suo vassallo non poteva che eseguire le direttive dell'Imperatore, unico a cui doveva obbedienza.
Nel frattempo le diplomazie si erano rimesse in moto e il bolognese Niccolò Albergati, rappresentante del papa Martino V, come era stato concordato nel trattato di Venezia, incominciò a percorrere il territorio bresciano allo scopo di ricevere in consegna i luoghi e le fortezze che poi avrebbe dovuto passare poi alla signoria Veneta.
I castellani Viscontei, obbedendo ai segreti ordini ricevuti dal loro Duca, si rifiutarono di aderire all'invito del Legato pontificio e serrarono i portoni dei castelli e delle piazzeforti che avevano in custodia. A nulla valsero le proteste di Venezia e le rimostranze dello stesso rappresentante pontificio che, invano e a più riprese si richiamò agli accordi sottoscritti il 30 dicembre.
Ancora una volta Filippo Maria Visconti rispose affermando di essere stato spinto a negare i castelli bresciani, oltre che dall'ordine dell'Imperatore, anche per consiglio dei suoi savi e per volontà dei cittadini...
Conscio comunque che Sigismondo non sarebbe potuto scendere in Italia a breve, e volendo procrastinare ancora la cessione di questi importanti piazzeforti, fece sapere che sarebbe stato pronto tuttavia a consegnarli, in attesa di ulteriori accordi, solo nelle mani del Pontefice, del re di Aragona e di altri, ma non direttamente in quelle dei veneziani.
Come era ben prevedibile, a quel punto, le ostilità ripresero quasi subito e, dopo alcuni scontri minori, le truppe venete agli ordini del Carmagnola e quelle milanesi comandate da Carlo Malatesta si affrontarono in campo aperto a Maclodio: era il 12 ottobre 1427.
La battaglia si risolse in poche ore e fu un disastro per l'esercito del Visconti: il numero dei morti non fu elevatissimo, ma migliaia di prigionieri, quasi tutti gli armamenti e molti cavalli, rimasero nelle mani dei veneziani.
Dopo la pesante sconfitta di Maclodio la maggior parte dei paesi e delle fortezze del territorio bresciano, che non avevano accettato prima la Signoria veneta, resero immediatamente atto di sottomissione alla Serenissima e alle sue truppe.
Anche la Valle Camonica, ormai sguarnita di truppe viscontee (gli armati di presidio erano stati richiamati con urgenza verso le zone delle operazioni militari) ed affidata alla sola difesa dei Federici, e già occupata fino a Breno, si vide ripercorsa da altri Contingenti veneziani che, come al solito, e come era consuetudine, angariavano e depredavano la popolazione.
Una forte colonna veneta, condotta dai capitani Cornaro e Scaramuzza si spinse su per la Valle fino a Mù, la cui antichissima rocca cadde il 10 gennaio 1428 nonostante l'accanita difesa di Bertinzolo Federici.
La Valle Camonica ora, per la prima volta, era, con tutto il suo territorio, dalla sponda nord del Sebino e fino al passo Tonale, sotto il dominio della Serenissima.
Primo Provveditore veneto in Valle Camonica fu nominato Pietro Coppi, che però non giunse mai nel solco dell'Oglio. Chi in realtà assunse i pieni poteri nella terra Camuna fu Giacomo Barbarico che, nominato Capitano di Valle, aveva ricevuto l'incarico, direttamente dal Maggior Consiglio di Venezia, di condurre ulteriormente avanti le operazioni militari proseguendo ad incalzare le truppe milanesi che si erano spostate oltre il confine naturale dei passi Aprica e Mortirolo ed erano stanziate in Valtellina.
Le truppe del Visconti, ancora una volta, erano in grande difficoltà su tutti i fronti e, ancora una volta, si attivarono nuove iniziative diplomatiche per giungere ad una tregua, promosse dal Savoia (spinto quasi certamente dallo stesso Filippo Maria) ed auspice il solito Papa Martino che fece intervenire, come intermediario, ancora il cardinale Albergati.
Solo i Veneziani, vincitori sul campo in tutti i fronti aperti, dei quali però tutti gli altri Signori italici ormai temevano troppo l'ingrandimento territoriale, erano logicamente restii a intavolare trattative di pace, a fermare le proprie truppe e ad abbandonare una situazione estremamente favorevole a loro, creata sul campo con le armi.
Alla fine di diversi incontri, anche segreti (che tutti ben conoscevano), con alcuni interventi e trattative (alla luce del sole), i delegati della Serenissima Repubblica, dovettero tuttavia piegarsi, anche per paura di restare soli e isolati e di accendere ulteriori invidie e forse anche rappresaglie diplomatiche (o repentini cambiamenti di alleanze) da parte di tutti gli altri potentati d'Italia.
Durante il congresso, convocato ancora a Ferrara il 27 ottobre (1427), le discussioni andarono, come al solito, molto per le lunghe (più di cinque mesi) per causa di alcune clausole che i rappresentanti veneti Paolo Correr e Sante Venier volevano inserire nel trattato. I Veneziani insistevano per avere proprio la Valle Camonica e le podesterie di Iseo, tenacemente invece difese da Filippo Maria che le voleva libere per permettere il transito della tanto agognata discesa in Italia dell'imperatore Sigismondo.
Il Visconti, dopo molti indugi, dovette però piegarsi alle condizioni di pace, i cui capitali (capitoli) vennero conclusi (sempre a Ferrara) nella notte tra il 17 e il 18 aprile 1428 e ratificati il 3 maggio successivo.
- 1428 18 aprile: con la nuova pace di Ferrara i milanesi Visconti riconoscono a Venezia il dominio sulla città di Brescia e sulla provincia, compresa la Valle Camonica
- 1428 1° luglio: Venezia riconosce la Valle Camonica "terra separata", governata da un proprio podestà.
Venezia ebbe confermato il possesso di Brescia e del suo territorio, anche se erano sorti dubbi circa i confini della Valle Camonica (che poi portarono ad innescare altre diatribe e a essere scusa per la ripresa delle ostilità), la consegna immediata delle munizioni, delle artiglierie e delle barche armate che il Visconti teneva nel lago d'Iseo.
Tra le clausole, per una pace duratura, vi era anche la precisa e specifica richiesta della consegna "in ferri e catene" di Giacomino da Iseo, a cui Filippo Maria si oppose con forza, anche con un intervento personale.
Venezia voleva a tutti i costi che Giacomino fosse dichiarato suddito bresciano e non milanese. Questa, che sembra una sottile distinzione, era invece un passo importante poiché se il Giacomino fosse stato riconosciuto cittadino bresciano e dunque sotto la podestà Veneta, sarebbe stato subito colpito da un mandato di cattura quale "ribelle" (e condannato a morte) e non come (se restava cittadino milanese) "nemico di guerra" a cui erano riconosciuti precisi diritti e privilegi (per il suo rango) e a cui non si doveva applicare la pena capitale.
Ebbe la meglio il Visconti e Giacomino degli Isei restò alla sua corte.
A poco a poco, sgombrato dai presidi e truppe milanesi il territorio perduto, ebbe inizio un, pur breve, periodo di tranquillità che permise di porre mano alla riorganizzazione dei paesi e delle istituzioni tanto a lungo sovvertite da una guerra dannosa specialmente per gli affari e pesantissima per le popolazioni che avevano dovuto subire molte angherie e soprusi da ambo le parti belligeranti che troppe volte poco distinguevano tra amici, confederati, alleati o nemici.
In Valle Camonica, una delle terre più contesa, Antonio e Bertolasio Federici di Giovanni, con i loro fratelli ed eredi, piegatisi con estrema flessibilità al nuovo padrone veneto e ai suoi delegati, furono accettati con benevolenza ed ebbero riconosciuti i privilegi e le immunità che in passato avevano ricevuto dai Visconti.
Malgrado le insistenze, le raccomandazioni, le manovre e le pressioni politiche sui Delegati veneti, i Federici non ottennero però il tanto desiderato feudo di Lozio, ma si videro restituita la rocca di Mù, sottoscrivendo la promessa di mantenerla in efficienza e al completo servizio della Repubblica.
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Castello di Gorzone
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Comincino e gli altri Federici di Angolo, Gorzone ed Erbanno, benemeriti per aver aiutato le truppe della Repubblica nelle precedenti azioni militari in terra camuna, furono ricompensati con donazioni, riconoscimenti e molto denaro (vedasi la storia di Angolo Terme in questo stesso volume).
Un accenno a parte merita Bartolomeo da Cemmo, a cui venne conferito il titolo di Conte di Cemmo e Cimbergo. Bartolomeo era sempre rimasto fedele a Venezia, anche nelle fasi più negative della lunga ed estenuante guerra, quando invece altri nobili della Valle se ne erano staccati cambiando con frequenza e facilità padrone e Signore a seconda delle varie fasi belliche e di quale fosse il vincitore di turno.
Alla fine delle ostilità e alla firma di "questa" pace, con la totale presenza dei Veneziani in Valle Camonica, ogni paese, tramite suoi Delegati, si preoccupò di chiedere e di ottenere la conferma dei propri statuti ed ordinamenti che da secoli erano patrimonio culturale camuno.
Venezia fu molto generosa nelle concessioni sia per calcolo di governo che per convenienza politica. Gli abitanti della Valle Camonica, alla quale si aggregarono pure quelli dei paesi di Lozio (spesso considerati come appartenenti ad una valle distaccata, forse per la isolata collocazione geografica, dalle vicende camune) e Pisogne (che era considerata - come ai nostri giorni - più in territorio Sebino che non in Valle), ottennero molte libertà di commercio ed anche l'importante riconoscimento per l'importazione del sale anche dai paesi nordici e non solo dalla stessa Venezia.
Questo era il più ambito (e invidiato dalle altri valli e comunità) tra i privilegi ottenuti dalla Valle Camonica, poiché il ferreo monopolio su questo essenziale bene di consumo (e vigeva invece per tutti gli altri paesi della terraferma) era il perno della forte economia veneta.
Va ricordato che il sale era essenziale (molto più di oggigiorno) per molti aspetti non solo legati alla dieta: veniva usato per la concia delle pelli, per la conservazione dei cibi e degli insaccati, come merce di scambio e in alcuni casi, non infrequenti, per la paga di lavori (da cui la parola "salario", inteso come compenso del lavoro manuale) e molte volte anche come misura di ricchezza personale e familiare.
Il fattore "politico ed economico" principale della famosa e famigerata "tassa del sale" era però l'obbligatorietà di "comprarne" una quantità minima per ogni famiglia e questo si trasformava di fatto in una pesante imposizione fiscale che era considerata una delle maggiori fonti di entrate tributarie in molti stati europei.
Il tributo annuo che la Valle Camonica era tenuta a versare alle casse della Serenissima fu stabilito in 5.070 lire imperiali, da raccogliere in tre rate quadrimestrali.
Lovere (che allora era ancora considerato in Valle Camonica e appartenente, come è ancora ai nostri giorni, alla Curia di Brescia) e il suo porto, fu aperto al transito di ogni merce, senza alcun obbligo di pedaggio.
Questo importante riconoscimento era stato voluto fortemente dai potenti e influenti commercianti veneziani poiché serviva ad attirare direttamente le correnti del traffico bergamasco al quale, in pratica, dopo la sconfitta dei Milanesi, era stato chiuso ogni valido sbocco verso i nuovi confini, la pianura lombarda e le più importanti città che, uscite dall'orbita Viscontea, erano entrate a far parte della sfera di influenza della Repubblica.
Fu concesso alla Valle Camonica anche un altro importante privilegio: l'esonero dai famosi e tanto limitanti "dazi di trasporto", specie sulle "ferrarezze", principale prodotto lavorato del ferro tratto dalle miniere locali, lavorato poi nei numerosi forni fusori e perfezionato nelle officine locali.
Un esempio dell'enorme importanza, non solo economica, che ruotava intorno al lavoro sui metalli ferrosi, viene da un censimento, condotto in quegli anni, che indica come, sui circa 40.000 abitanti della Valle, ben 10.000 erano occupati, direttamente o indirettamente, in questo settore.
Tutti questi vantaggi economici vennero accolti con molto favore dai Camuni... ma fu per poco, presto si ritornò alle pesanti tassazioni dell'epoca Ducale con la scusa, accampata da tutti i vincitori di ogni epoca, del mantenimento dell'esercito in armi per garantire la sicurezza dei confini.
Libera invece rimase la transumanza del bestiame, a condizione che nella pianura, dopo il passaggio delle mandrie, si lasciassero ai proprietari dei fondi e ai confinanti delle strade percorse, in cambio della pulizia dei bordi, tutti gli escrementi (per il cui possesso e uso vigevano precise e severissime leggi), veniva però fatto obbligo di fornire il fieno e lo strame sufficiente e necessario per il sostentamento degli animali al seguito dell'esercito (cavalli, muli, asini e pecore).
Furono accolte, anche in questo caso temporaneamente, le aspirazioni autonomistiche della Valle Camonica, reclamate con forza dai Delegati valligiani, alla quale fu assicurato l'invio di Rettori veneti alle massime cariche amministrative locali e non appartenenti alla tanto odiata nobiltà bresciana.
Venezia, fidandosi poco del Visconti e dei suoi alleati, aveva, nel frattempo, provveduto a raccogliere altre truppe delle "Cernide" che erano formate da dei giovani "coscritti" (dai 18 ai 20 anni, non militari di professione) ma anche da "homini" validi (per le armi) dai 20 ai 60 anni (era una coscrizione obbligatoria applicata per la prima volta in Italia !), provenienti dalle sue province della Terraferma ed inquadrati e comandati da ufficiali e sottufficiali di carriera e "svezzati" alla vita militare come soldati di mestiere.
Filippo Maria, approfittando della tregua e della sospensione delle ostilità, aveva portato a termine alcuni passi diplomatici importanti per tenere buoni gli avversari sul campo e con la sua attivissima diplomazia aveva stretto legami di parentela con Amedeo VIII di Savoia, sposandone la figlia.
Queste manovre, note a tutti e da tutti viste con estremo sospetto, erano chiaramente individuabili come azioni preparatorie a una nuova guerra alla ricerca di rivincita dalle sconfitte subite sia sul campo che al tavolo delle trattative a Ferrara.
La miccia e l'occasione per un improvviso ritorno alle armi fu una congiura che numerosi ghibellini bresciani, favorevoli da sempre a Milano (e rimasti sempre in "contatto" con i Milanesi), avevano ordito accordandosi col comandante della importante roccaforte di Orzinuovi con l'intento di riconsegnarla al Visconti.
Le ostilità però, in questo caso, ripresero più sulle carte militari e nei discorsi dei comandanti, che nella realtà poiché le truppe dei contendenti si mossero, manovrando a più riprese, nella pianura e nelle valli ma senza giungere mai a scontri diretti.
La calata, tanto attesa, in Italia del nord e in particolare in aiuto del Ducato di Milano, dell'imperatore Sigismondo, accompagnato dal vassallo visconteo Giacomino da Iseo, determinò un breve periodo di sospensione delle operazioni belliche per dar luogo ad altre intense (e sterili) trattative diplomatiche.
Fu in questo lasso di tempo di "non belligeranza" che il Visconti tentò, attraverso la figlia e con suoi fiduciari, di attrarre di nuovo a sè il Carmagnola con approcci che il condottiero, onestamente e puntualmente riferva a Venezia senza però riuscire ad attenuare i sospetti di tradimento che lo stesso Visconti aveva ad arte diffuso tra i notabili veneziani.
La Serenissima Repubblica, diffidente dopo l'ultima sterile campagna militare condotta dal suo comandante supremo, ordinò al Carmagnola di interrompere ogni eventuale approccio o contatto con il Visconti e da Brescia, ove si trovava con la moglie Antonia Visconti e le figlie, il condottiero fu richiamato d'urgenza a Venezia col pretesto di un parere intorno alle trattative in corso.
Il Carmagnola, certamente ignaro di quello che lo aspettava, giunse in laguna accompagnato da una scorta d'onore ma, poco dopo, il 27 marzo 1432, fu arrestato su ordine del Maggior Consiglio.
Malgrado il vastissimo scalpore suscitato, specie nelle truppe, da questa improvvisa (ma certamente premeditata) azione, fu processato il 9 aprile, condannato a morte per alto tradimento e decapitato il 5 maggio.
Al suo posto, al comando supremo dell'esercito veneto, la Repubblica elesse il fidato alleato Gianfrancesco Gonzaga , che, per evitare che truppe Ducali milanesi, stanziate in Valtellina, entrassero in valle inviò in alta Valle Camonica un consistente Contingente di armati e cavalieri, agli ordini del Provveditore Giorgio Cornaro.
Alle truppe della Repubblica furono affiancate anche mille Cernide bresciane che erano state arruolate nelle nuove terre assoggettate alla Serenissima e poste sotto il comando di Giacomo Trivella e di Antonio Ducco.
Questa importante spedizione era stata elaborata dal comandate in capo per la necessità di mettere in opera un'azione militare che, salendo dalla vallata dell'Oglio, minacciasse direttamente il cuore della Lombardia facendo affluire truppe attraverso la Val Sassina e la Valtellina.
Il passaggio dell'armata in Valle Camonica non fu casuale poiché si era ridestata, nel comando veneto, la forte preoccupazione del risorgere di simpatie viscontee in alcuni paesi e rocche della Valle dove, tuttora restavano grandi l'influenza e la fedeltà di alcune famiglie ghibelline, partigiane del Duca milanese.
Il Cornaro, che si era incautamente spinto fino alla importante e ben difesa piazzaforte di Tirano, passando per il passo del Mortirolo, venne però colto di sorpresa dalle truppe milanesi, guidate abilmente dal Piccinino, fu sconfitto e fatto prigioniero lui stesso con molti dei suoi.
Grande fu l'emozione che questa pesante sconfitta suscitò a Brescia, tanto che spontaneamente la città provvide direttamente a rafforzare le sue difese verso l'Oglio e la Valle Camonica, trasferendo molte barche armate dal lago di Garda al Sebino ed arruolando numerosi uomini armati, pagandoli direttamente con fondi del bilancio cittadino. Brescia spedì anche una delegazione di notabili a Venezia per ottenere con estrema urgenza l'invio di altri aiuti. Questa pressante richiesta fu a più riprese caldeggiata anche da Pietro Avogadro che per ben due volte si era recato in armi (e a proprie spese) in Valle Camonica per fronteggiare i ribelli e per avere un più preciso quadro generale di una situazione particolarmente confusa.
Con quella fermezza che solo la stupidità politica di chi non si rende conto direttamente della situazione sul campo (e con poco acume strategico), tramite una "Ducale" datata 30 novembre 1432 e diretta al provveditore Federico Contarini, la Repubblica negò l'urgenza di un proprio massiccio intervento armato, non ritenendo grave la situazione militare determinata dalle vicende camune e valtellinesi.
Questa mancanza di aiuti diretti e di ordini precisi fu un grave errore poiché i ritardi e le incertezze del comando Veneziano diedero modo alle truppe milanesi di superare il passo dell'Aprica, di scendere in Valle Camonica e di compiere scorrerie per tutta la Valle tanto da occuparla militarmente fino alle terre di Lovere e Volpino.
Contemporaneamente al passaggio delle truppe viscontee, i Ghibellini camuni, rinfrancati dalla presenza sul territorio delle schiere milanesi, guidati da Antonio Federici di Edolo, affiancatosi nuovamente a Milano, assalirono gli avversari Guelfi nelle rocche di Prestine e di Angolo e si portarono in armi anche a minacciare Cemmo dove risiedeva il conte Bortolomeo che era rimasto fedele a Venezia.
La sollevazione si diffuse rapidamente in tutta la valle ed il Gonzaga, finalmente autorizzato dal Maggior Consiglio, per porre argine alle scorrerie, alle vendette e alle distruzioni fu costretto a raccogliere altre Cernide bresciane e cremonesi che spedì in Valle.
Queste nuove schiere erano da complemento alle truppe agli ordini del Contorini e del Capitano Luigi da Sanseverino e, validamente aiutati da Bartolomeo da Cemmo, non senza fatica, riuscirono a debellare e sconfiggere i rivoltosi e le truppe milanesi che si ritirarono nuovamente in Valtellina.
Riaffermato il predominio sull'intera Valle Camonica, la Serenissima Repubblica di San Marco ricompensò il fedele Bartolomeo assegnandogli molti beni, proprietà e privilegi sottraendoli agli altri Federici ribelli.
Il giorno 8 aprile 1433, dopo i soliti lunghi negoziati dovuti soprattutto all'ostinazione del Visconti, che voleva restituita alla sua signoria la Valle Camonica e conservati i confini all'Oglio, fu conclusa un'ennesima tregua (di compromesso), sempre presso la Corte di Ferrara.
I Bresciani inviarono a Venezia una delegazione perché, dal governo della Repubblica, "ottenesse non solo sollievo dai danni e dalle spese di guerra, ma pure la definitiva autorizzazione a riformare i propri statuti ed anche la (tanto agognata) soggezione giurisdizionale a Brescia della "ValCamonica testè ridotta all'obbedienza… non senza sospetto di prossime ribellioni".
La richiesta della delegazione bresciana fu a lungo discussa a Venezia, ma ancora una volta la Valle Camonica, troppo importante strategicamente ed economicamente per ferro, ferrarezze, legno e lana), mantenne la separazione politica e amministrativa dal capoluogo e fu affidata al governo di un Provveditore veneto (e non bresciano).
La Valle Camonica fu anche molto favorita dal suo "Capitano di Valle" Pietro Coppi che riuscì ad ottenere dal Senato di Venezia una forte diminuzione della tassazione, per "danni di guerra", che era stata imposta inizialmente in ben 2.000 Ducati.
I Camuni, approfittando anche delle tensioni ancora esistenti tra Venezia e Milano, avanzarono la pretesa che venissero riconosciute le loro prerogative statutarie che da secoli erano il loro fondamento giuridico amministrativo in questa antichissima vallata.
Poiché la Valle era terra di confine e quindi strategicamente importante, la Repubblica Veneta accettò giocoforza il mantenimento di molte tradizioni e statuti locali ed ebbe una politica di governo molto proclive all'indulgenza permettendo, fra l'altro, l'esportazione fuori dai confini di Stato (ora Veneto) del ferro, delle armi e armature prodotte.
Questa importante concessione fu resa operativa con un'altra "dogale" (del Doge e non del Duca) del 27 giugno 1437.
Anche questa tregua però non era destinata a durate a lungo e ben presto Brescia ritornò ad essere centro e fulcro di una nuova guerra, ostinatamente voluta dal solito Filippo Maria Visconti, che aspirava al recupero dei vasti territori che aveva dovuto cedere e in special modo della Valle Camonica dove ancora una volta i Federici, appoggiati dai Valtellinesi e dalle truppe milanesi mandate da Pietro Visconti, "avevano fatto sollevare buona parte di quei borghi e li aveva spinti a darsi al Duca di Milano senza colpo alcuno di balestra".
- 1438: 2 luglio a Corteno una colonna di truppe viscontee comandata dal capitano di ventura Niccolò Piccinino penetra in Valle Camonica e raggiunge Breno assediata inutilmente per sei mesi.
- 1438: 24 settembre: a Brescia il capitano Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, comandante delle truppe venete nella guerra contro i Visconti, abbandona la città lasciandola priva di difesa.
Molti paesi camuni, approfittando nuovamente della situazione militare che si era creata, subito provvidero a farsi riconoscere particolari privilegi (politici ed economici) dal nuovo (e vecchio) Signore.
Pisogne, ad esempio, il 15 aprile 1439, ottenne dal Duca di Milano, numerose esenzioni e facilitazioni commerciali per il suo porto. La collocazione geografica (e politica) che aveva assunto questo porto lo rendeva molto importante anche militarmente oltre che commercialmente: era la porta principale d'ingresso, da sud e est, in Valle Camonica ed era la via lacuale diretta con Lovere e le terre bergamasche.
Il governo veneto e i massimi comandi militari di terraferma, compresa finalmente la gravità della situazione che si era creata nelle valli bresciane e in Valtellina, e vista la necessità di colpire immediatamente le schiere milanesi, spedirono in Valle Camonica numerose e ben armate truppe al comando del famoso capitano generale Bartolomeo Colleoni (*).
COLLEONI BARTOLOMEO
Solza (BG) 1400 - Malpaga (BG) 1475
Capitano di ventura lombardo. Al servizio di Venezia combattè a lungo, dal 1430 al 1441, contro i Visconti a fianco dell'altro famoso condottiero: il Gattamelata. Non avendo ottenuto il comando supremo passò al servizio della Repubblica Ambrosiana dal 1442 al 1447 quando, sospettato di tradimento, fu imprigionato. Riuscì a fuggire e tornò al servizio di Venezia nel 1448. Venne sconfitto, nel 1451 da Francesco Sforza, nuovo Signore di Milano. Passò, lo stesso anno, sotto il suo comando per ritornare, dopo la pace di Lodi, nel 1454, al soldo di Venezia. Ottenne, come ricompensa, il comando nominale di tutte le truppe di Terraferma della Repubblica, ma di fatto venne confinato nel suo castello bergamasco di Malpaga.
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Questi, con manovre rapide e ben coordinate, come era solito fare nelle sue azioni belliche, riuscì in breve a piegare la residenza nemica (e degli alleati camuni) e, in uno scontro diretto, a far prigioniero lo stesso comandante visconteo Antonio Baccaria.
Si mosse allora personalmente Pietro Visconti che, giunto a Lovere il 18 settembre 1438, sollecitò l'arruolamento nelle sue schiere dei Camuni fedeli al Ducato, (e molti risposero al suo appello).
Riuscì, con una veloce (per quei tempi) marcia, ad occupare di nuovo l'alta Valle e la rocca di Corteno. Da qui emanò un solenne diploma composto da "29 capitali" tutti a favore dei fedeli valligiani. Venne creata, in tutta l'alta Valle Camonica, addirittura una zona franca e senza vassallaggi, una specie di Repubblica indipendente con ampi poteri politici e amministrativi (peccato che tutto questo durò pochissimo !).
Il Visconti, con le sue truppe, procedette ad una ridiscesa per la Valle conquistando paese per paese e, dopo aver costretto al ripiegamento le truppe dei veneziani, strinse d'assedio il potente castello di Breno.
Questa rocca, la più munita e importante dell'intera valle, per la sua posizione strategica e il suo armamento, era la chiave di volta di quasi tutto il sistema difensivo della bassa e media Valle Camonica. Al comando degli assediati camuni, rimasti fedeli a Venezia, vi erano Giacomo, Lorenzo e Marone Ronchi, Martino Leoni, unitamente al capitano di Valle Pietro Contarini e al connestabile Giovanni Negroboni.
La guarnigione, chiusa entro il perimetro fortificato delle mura e della più interna e possente rocca, fu costretta però a cedere dopo una lunga ed eroica resistenza. In suo aiuto era salito il Valle soltanto Pietro Avogadro e le truppe da lui direttamente pagate.
L'Avogadro, la cui figlia era stata moglie di Alberto Federici detto Bettinzone, tentò, inutilmente, a più riprese, con i suoi
uomini e le sue artiglierie, di liberare gli assediati dalla morsa delle truppe milanesi. Dopo la caduta del castello di Breno il Visconti era di nuovo padrone della Valle Camonica.
Venezia, che però aveva nel frattempo riconquistato, con una certa facilità, le Valli Trompia e Sabbia, in cui erano scoppiate delle rivolte fomentate dal Visconti, trovò invece molte difficoltà a rientrare in possesso della terra camuna, dove si susseguirono varie scaramucce e vere e proprie battaglie.
Ci vollero numerosi e sanguinosi scontri tra i due eserciti ma alla fine, sulle schiere milanesi, condotte da Melchiorre da Parma e dal marchese Ghisello Malaspina di Mulazzo, prevalsero le truppe venete.
Il castello di Breno ridivenne protagonista di un'altra eroica resistenza: questa volta erano asserragliate, tra le sue mura che erano state appena ricostruite e rafforzate dopo i precedenti assalti, le truppe milanesi che solo poco prima l'avevano assediato e conquistato.
I difensori, rimasti completamente isolati, abbandonati e senza speranza di ricevere aiuti e rifornimenti, vennero ben presto ridotti all'estremo della resistenza anche perchè da Brescia erano salite in Valle truppe fresche e ben 2.000 uomini al comando di Pasquale Malipiero che, cinsero d'assedio e riconquistarono la rocca.
Riportato l'ordine in bassa Valle e lasciato un forte presidio a Breno e negli altri castelli e rocche (Montecchio, Plemo, Cimbergo, Cemmo, Lozio ecc) dopo una breve campagna militare, tutta la Valle Camonica ritornò sotto la giurisdizione militare veneta.
La Repubblica, malgrado il tradimento consumato poco prima, riconfermò a Lovere, Pisogne ed Iseo tutti i privilegi che aveva già precedentemente concesso, però, questa volta, a ricordo di quanto successo solo l'anno prima, con alcune "ordinanze" annullò tutte le infeudazioni concesse da Milano ai vari Federici che erano passati dalla parte del nemico e avevano servito il Visconti in questa che sarà la sua ultima avventura militare in terra camuna.
- 1440: 17 GIUGNO: a Brescia i Consigli della città chiedono indignati al Papa la rimozione del vescovo Francesco Marerio, costantemente assente. Papa Eugenio IV lo trasferirà il 23 marzo 1442 alla cattedra di Montefiascone
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In Valle, dove negli ultimi anni avevano governato magistrati e Capitani di Valle di diretta nomina veneta, fu inviato un podestà con il titolo di Capitanio (Capitano) di Valle, cittadino di Brescia (e non più Veneto).
Questa nomina (invisa dai Camuni) fu concessa con una "Dogale" del 9 aprile 1440, in virtù dei privilegi elargiti a riconoscimento della fedeltà dimostrata a Venezia dalla città e dai suoi abitanti.
Quest'ultimo atto, ritenuto oltremodo ingiurioso dai Camuni che avevano sempre avuto contrasti furibondi e avevano dimostrato per secoli un odio profondo per la città di Brescia e i suoi delegati, fin dai tempi del pessimo governo curiale e vescovile, fu definito (senza ombra di ironia) dallo storico Capoferri una "macchia nera del governo veneziano verso la fedelissima ValCamonica" !
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Simbolo e stemma della Valle Camonica
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Molti notabili, ma anche semplici cittadini camuni, che avevano sostenuto la dominazione di Milano furono riconosciuti colpevoli di "viltà e di tradimento", poiché avevano precedentemente servito e giurato fedeltà a Venezia e poi si erano di nuovo "asserviti" al Duca di Milano. Furono portati davanti a dei giudici nominati da Brescia e da Venezia, molti furono puniti con pene detentive lunghissime, sanzioni pesantissime e alcuni furono anche condannati alla pena di morte.
Giacomino degli Isei, al quale Filippo Maria Visconti aveva concesso l'investitura delle terre di Iseo e di Pisogne, con facoltà di nominarvi un proprio vicario e che tanto si era adoperato per far intervenire l'Imperatore Sigismondo in aiuto del suo padrone, fu dichiarato ribelle, condannato alla massima pena (la morte per impiccagione). La condanna avvenne in contumacia in quanto Giacomino ben se ne guardò di rientrare nelle sue terre di Iseo e del Sebino. Restò presso la Corte milanese a svolgere le sue funzioni di consigliere e delegato Ducale.
In seguito, dopo la pace di Lodi e la salita al potere dello Sforza, venne riabilitato anche da Venezia e reintegrato in molti dei suoi privilegi feudali.
I Conti di Lodrone, a compenso dei danni da loro subiti nelle vicende belliche ed in premio del loro aiuto, ottennero da Venezia, per la quale avevano valorosamente combattuto, non soltanto il feudo e il castello di Cimbergo, ma pure Bagolino ed il possesso del piccolo feudo di Muslone.
Sembrava ormai che tutto fosse tornato ad un certo equilibrio di forze e che la situazione di "stallo politico-militare" avesse portato ad una pace accettata dalle parti in causa: tra Milano e Venezia, tra Savoia e Firenze, tra il Papato e il Regno (di Sicilia) e che la situazione politico-territoriale che si era creata, dovesse durare per un certo periodo...
Invece ... nel febbraio del 1441 il Piccinino, su diretto ordine del Visconti, si mise a capo di un altro forte esercito e diede inizio ad una nuova campagna militare che subito suscitò in tutto il territorio bresciano allarme e rinnovati timori. Nei borghi e castelli della provincia bresciana e della bassa bergamasca i partigiani del Visconti, che avevano subìto sequestri di beni e proprietà e declassamento sociale, rialzarono immediatamente il capo e tentarono di sottrarsi al dominio veneto.
In Valle Camonica, a capo delle famiglie ghibelline, si pose quel Bartolomeo da Cemmo che era stato, anche con grandi rischi personali, uno dei più fedeli servitori della Repubblica durante le varie campagne che le truppe Milanesi avevano portato in zona. Ora, forse punto nell'orgoglio di avere ricevuto meno di quanto si aspettava per la sua incondizionata fedeltà, ribelle a Venezia, fu uno dei principali sobillatori e fautori di una forte e ben organizzata sollevazione che rapidamente si estese in quasi tutta la Valle e si concluse con un assalto alla rocca di Breno dove si trovava il castellano Giovanni Negroboni, il quale seppe però difendersi con vigore coadiuvato nel comando dai Connestabili Paolino da Lardaro e Bartolino del Bastaiole.
Come già accaduto in due occasioni precedenti la Valle fu riconquistata da Pietro Avogadro, che, in poco tempo ridusse all'obbedienza i Federici di Erbanno, Gorzone ed Angolo.
I vasti beni e possedimenti che il ribelle Bartolomeo da Cemmo aveva avuto in donazione da Venezia, vennero restituiti agli antichi proprietari tra cui Bertolasio Federici ed i suoi parenti (a cui erano stati, solo poco tempo prima, sequestrati per essere donati al Bartolomeo).
Malgrado questa ennesima dimostrazione di poca affidabilità e fedeltà verso la Repubblica, alla Valle Camonica vennero tuttavia concessi nuovi privilegi e vaste esenzioni fiscali e tributarie: alcuni comuni (pochi) rimasti fedeli a Venezia, che non erano, questa volta, passati dalla parte dei rivoltosi, favorevoli a Milano, vennero completamente esentati da pagare tasse e imposte per lunghi periodi.
La Repubblica fu però inflessibile nel mantenere l'odiata imposizione giurisdizionale della soggezione della Valle a Brescia ed a un suo Delegato nominato tra i notabili della città. A nulla valsero le vibrate proteste dei Delegati camuni, l'atto di nomina fu giustificato in modo molto chiaro e definitivo dai Podestà Veneti di Brescia dalla considerazione che la fedeltà dei Camuni a Venezia, durante gli anni 1438 e 1440, si era mostrata ben poco salda e affidabile.
Nei "capitolati di sottomissione" che furono fatti sottoscrivere dai vari paesi che si erano ribellati, fu, da questi, espressamente chiesta (e quasi sempre ottenuta) la clausola del ritorno "libero e senza condizioni" in patria di coloro che se ne erano allontanati perché avevano dimostrato forti simpatie viscontee e non si erano assoggettati al governo Veneto Bresciano.
Su delega del Maggior Consiglio, erano stati concessi, con larghezza, il perdono e la possibilità di rientro in Valle, ad alcuni di questi ribelli.
Dimostrando sagacità politica e voglia di pacificazione, in quasi tutti i casi venne anche posta in atto, nei loro confronti, la restituzione dei beni e la rifusione nelle proprietà che erano state sequestrate o confiscate.
Vi furono comunque delle rigorose inchieste che furono condotte da magistrati bresciani e veneti e molte volte i Delegati dogali reintegrarono anche alcuni dei Federici ribelli nei loro beni feudali purchè dimostrassero "ravvedimento" e si impegnassero in interventi e lavori di pubblica utilità.
Un chiaro esempio di questa (illuminata e... interessata) politica di perdono e reinserimento in proprietà e beni, è quello che venne applicato a Giorgio detto Lordello da Bienno, persona "abilissima ed esperta nel commercio e nella lavorazione del ferro e nell'arte delle ferrarezze". A questo noto artigiano e imprenditore, anche se era stato uno dei più accesi e fedeli sostenitori del Visconti, fu concesso il ritorno in patria purchè (e perché) contribuisse al rilancio delle attività metallurgiche che erano, in quel momento, languenti in Valle Camonica, a causa delle lunghe guerre.
Nel 1446 la Riviera, Lonato e la Valle Camonica vanamente tentarono, ancora una volta, con suppliche e rimostranze, di sottrarre alla città di Brescia l'odiata nomina diretta dei loro Podestà. Venne fatta, più volte, "lamentela e richiesta" che questa nomina fosse deferita ai Rettori Veneti di Brescia che avrebbero fatto la loro scelta in una quaterna di nomi proposti dagli abitanti dei luoghi interessati. Nulla si ottenne da Venezia anche perché la tensione politica tra la Serenissima e Milano era sempre molto alta e tutti ben sapevano che altre e cupe nubi di guerra si addensavano ai nuovi confini che Milano (e fors'anche Venezia) non riteneva validi e sicuri.
I Camuni comunque riuscirono nuovamente ad ottenere che restassero in vita le loro istituzioni amministrative e giurisdizionali che competevano e dipendevano direttamente dai massimi organismi ufficiali della Valle.
Le contestazioni maggiori furono però in materia di tributi: più volte i rappresentanti della Valle Camonica fecero ambascerie a Brescia e anche direttamente a Venezia perché erano persuasi di essere sacrificati anche nei confronti di altre comunità della Terraferma veneta e di subire tassazioni maggiori e penalizzanti sui loro prodotti e sulle loro esportazioni.
Da Venezia, ma specialmente da Brescia, non giunsero mai risposte e atti soddisfacenti e questo spiega in gran parte la prontezza con la quale la Valle Camonica passò, ancora una volta, non appena comparvero di nuovo le truppe milanesi, negli anni successivi, dalla parte del Ducato che era retto, dal 1447, dal nuovo Signore Francesco Sforza (Francesco I).
Fu dunque il nuovo Duca di Milano (Francesco Sforza), che nel 1453 inviò nuovamente delle truppe in Valle Camonica e, incontrata una debole resistenza da parte delle scarse soldataglie Veneziane, che nella zona avevano stanziato poche e male armate milizie (solo nel castello di Breno vi era una efficiente guarnigione), risalita la bassa valle, vi instaurò un regime militare di terrore e vendette, occupando la zona fino a Breno.
Qui, ancora una volta, alcuni fedelissimi a Venezia, fra cui il coraggioso Pasino Leoni, asserragliati tra le nuove mura, malgrado le notevoli difficoltà negli approvvigionamenti e speranzosi nell'arrivo di aiuti di truppe della Repubblica, resistettero a lungo alle predominanti schiere nemiche.
La munita rocca brenese e i suoi difensori erano una grossa spina nell'ala nord dello schieramento delle forze Milanesi e lo Sforza, per impadronirsene dovette mandare in valle il suo comandante in capo: il famoso condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni. Questi giunto all'assedio del castello con numerosi soldati scelti, per la prima volta nella storia delle innumerevoli guerre combattute in questa terra, usò delle armi da fuoco: cannoni, bombarde, bombarole e colubrine.
Le vicende camune, ancora una volta, si intersecarono con quelle, ben più ampie dell'intero scacchiere bellico del nord Italia e, l'anno dopo, nel 1454, essendo mancato ai Milanesi l'agognato e promesso appoggio dei Francesi, la valle tornò sotto il dominio Veneto: ironia delle vicende di quei tempi: la riconquista fu per opera dello stesso Colleoni che, dal comando delle truppe di Milano, era passato, con lo stesso grado, sotto le insegne delle Serenissima Repubblica Veneta.
La pace imposta da Venezia e Milano dopo una serie di pesanti sconfitte, fu finalmente siglata nella sua forma definitiva il 9 aprile 1454 a Lodi.
Tra le clausole Francesco Sforza riconosceva a Venezia il possesso delle città di Brescia, Crema e Bergamo e dei loro contadi e riceveva in cambio Ghiara d'Adda e il ponte di Brivio.
La Valle Camonica, parte ormai integrata e inglobata nelle terre bresciane da quel momento divenne (e lo restò, salvo brevi periodi, fino alla conquista Napoleonica) parte integrante della Terraferma veneziana.
Gli accordi di pace, ai quali aderirono anche gran parte degli altri Stati italiani, divennero il perno di un sistema di equilibri nella penisola che durò per circa cinquant'anni.
I Delegati della Valle Camonica riuscirono a strappare al governo della Serenissima patti molto vantaggiosi e venne riconfermata completamente la "Dogale" del 1° luglio 1428 del Doge Foscari con la quale i Camuni ottenevano:
1. usare i propri statuti civili e criminali
2. essere esentati dalle tasse d'imbottato e di macinato
3. Continuare a introdurre sale dalla Germania, sia per uso proprio che per uso degli abitanti della Val di Scalve
4. godere intera libertà di commercio dei "loro ferri" senza tassa di "fondaco"
5. non dipendere nè da Brescia, nè da Bergamo (questo venne poco dopo cancellato per favorire Brescia)
6. liberi di introdurre vini e granaglie senza pagare la tassa per commercio a Lovere e la gabella del porto a Pisogne
7. poter imporre propri dazi
8. ottenere la restituzione alla valle del territorio di Lozio che era stato separato dai Visconti
9. rivedere in proprio il catasto della Valle
10. pagare un contributo annuo (compresi Lozio e Pisogne) di 5.070 lire imperiali nuove da versarsi in tre rate.
Nel 1433 il giurista Giacomo Armanno presentò al "Consiglio di Valle" il "Corpo degli Statuti" che racchiudeva ogni "Legge, statuto o convenzione" che era riconosciuta come appartenente alla tradizione camuna.
Lo stesso anno il "Corpo" fu ratificato dal Senato Veneto e reso operativo.
La Valle Camonica (con il Sebino), da quel momento, ormai posta ampiamente e saldamente entro i confini della Repubblica (escluso il confine nord con la Valtellina), persero molto di quella importanza strategica che avevano avuto fino ad allora e la popolazione locale si poté dedicare, per alcuni anni, più che in passato, ai commerci, alla lavorazione del metallo ferroso e allo sfruttamento intensivo dei vasti e rigogliosi boschi che fornivano in abbondanza legname per la cantieristica navale veneta e per i porti della Repubblica.
Nel 1455 Venezia ordinò la demolizione totale di tutti i castelli, rocche, torri e residenze fortificate che erano presenti in Valle Camonica, tranne i castelli di Breno, Lozio e Cimbergo.
Le intenzioni della Serenissima erano chiare: eliminare le cause di attriti tra nobilotti locali, troppe volte (anche se condannati) impunibili per reati anche gravi perché spesso si rifugiavano, al sicuro da rappresaglie, nelle loro dimore fortificate e ricolme di "famigli" spesso pesantemente armati.
L'azione "demolitrice" dei privilegi feudali e la distruzione di molte dimore e rocche, avrebbe portato (come avvenne) alla graduale perdita di potere delle famiglie più influenti, molte volte pronte a vendersi al miglior padrone di turno, eliminando anche molte "faide e scontri" e favorendo il nascere di una società con un forte governo unico e centrale.
Da allora, dei numerosi castelli che sorgevano possenti e in quasi tutte le contrade della valle, ne restano solo ruderi, muri diroccati e il ricordo dell'antica possanza.
Partendo dall'alta valle, a Vezza d'Oglio, si trovano ancora alcuni "avanzi" di quella possente torre, alta circa quindici metri, che ospitò anche quel (violento e sanguinario) Conte Pasino Federici, passato alla storia per essere intervenuto come ghibellino alla solenne Pace del Ponte Minerva ma specialmente per esser stato uno dei promotori ed aver partecipato di persona alla strage delle famiglia Nobili di Lozio.
A Mù, in una posizione dominante il paese di Edolo, esistono i ruderi del castello, uno dei più importanti dell'intera Valle Camonica, che fu dimora dei Conti Federici (di Mù). In esso vissero, fra gli altri, il conte Giovanni, che nella notte di Natale 1409, guidò una schiera di Ghibellini all'assalto della rocca di Lozio, sterminandone i difensori e trucidando tutta la famiglia del Signore locale: il conte Bettinzolo. Fu sepmre il Conte Giovanni che, nel 1428, quando salirono in Valle i due Capitani veneti Corsaro e Scaramuccia, si rinchiuse nel suo castello ed oppose una tenace resistenza. Sempre del ramo Federici di Mù va ricordato anche il Conte Minolo, personaggio privo di scrupoli che divenne famoso per i suoi voltafaccia e tradimenti, finendo persino in carcere e dovendo poi allontanarsi definitivamente, perché bandito da Venezia, dai suoi possedimenti in Valle Camonica.
A Sonico e nella frazione Rino si scorgono ancora i tronchi mozzi e sventrati di alcune torri o dimore nobiliari adibite ora ad abitazioni private.
A Corteno, sopra un'alta rupe, sono stati rilevati i resti di un'antica muraglia che dovette essere parte integrante della cinta di un castello, di epoca tardo medioevale, mentre, quasi di fronte a questa struttura, a Cortenedolo rimangono i ruderi di una vecchia e diroccata costruzione, forse una torre o dimora fortificata. Proprio su questa struttura si tramandarono per secoli la leggenda di passaggi segreti e di proprietari misteriosi, molto ricchi, che passavano il tempo a contar denaro sulla soglia dei loro oscuri antri.
Nel centro abitato di Malonno, è ancora ben visibile la grande torre che per molto tempo appartenne alla famiglia Celèri. Fu la dimora in cui il famosissimo "Conte di Malonno", Marcantonio Martinengo, sposo di Margherita Celeri, si rifugiava dopo avere compiuto qualcuna delle sue imprese, sfociate alcune volte anche in efferati delitti, e solo nel 1721, dovette fuggire in Valtellina perché aveva ucciso il dottore Francesco Panierini da Cedegolo e, condannato dal Tribunale della Serenissima, a Brescia, era ricercato con una pesante pena da dovere scontare. Dopo circa vent'anni l'orami attempato Marcantonio, andò ad abitare in città dove riprese a condurre la solita vita disordinata: finì i suoi giorni colpito in un duello con il Conte Durante Duranti e morì all'angolo dell'attuale via Crispi a Brescia.
A Berzo Demo, vicino alla chiesa di S. Agostino, esiste ancora la torre con spessi muri e con numerose e strette feritoie, in cui il ghibellino Giacomo Mantenuti, resistette, con pochissimi fedeli e servi, per quattro giorni ai Continui e incessanti assalti di ben seicento Guelfi venuti da Predore.
A Cemmo sarebbero stati addirittura tre i castelli che svettavano tutti in posizioni dominanti: uno, a fianco dell'attuale chiesa di S. Siro, fu distrutto dalle truppe dell'Imperatore Barbarossa, un secondo era sulla strada che conduce in località Pedena ed il terzo era stato eretto su un dosso che poi prese il nome di "Dosso del Castello". Questi tre manieri, appartennero ai Conti Da Cemmo, Guelfi accaniti e imparentati anche con i Nobili di Lozio. E' passata alla storia la triste vita del conte Bartolomeo Da Cemmo, che nel 1438, lui tra i più fedeli sostenitori di Venezia, dopo una strenua difesa nel suo castello di Pedena, fu costretto a cedere, arrendersi e promettere eterna obbedienza al Duca di Milano. La cronaca del tempo ricorda che per questo atto di sudditanza tanto ne soffrì e si vergognò che decise di andarsene per sempre dalla amata Valle Camonica.
A Cimbergo, anche ai nostri giorni, sulla sommità di un elevato spuntone di roccia, si stagliano i ruderi del fortilizio in cui furono infeudati i Conti Lodrone della Val di Non. Fu tra queste mura che, il 12 marzo 1372, venne firmata una tregua tra i Guelfi ed i Ghibellini della Valle Camonica, voluta personalmente da Bernabò Visconti di Milano: la tregua durò qualche mese.
Anche a Losine dovette sorgere un castellatico ma di questa rocca non rimane ormai più nessuna traccia anche se nelle vicende storiche camune a cavallo del 1110 e fino al 1300 si fa spesso riferimento ad esso. Così come nella opposta Nadro, anche a Losine la rocca fu la residenza della potente famiglia Griffi, strettamente legati al partito guelfo e dunque nemici della Signoria Milanese. Fu proprio nel castello di Losine, che, nel 1177, venne ucciso a tradimento un certo Bicardo Griffi, ammazzato da Guiscardo da Breno: scoppiò, per questo assassinio, una vera e propria guerriglia fra Losine e Breno: soltanto l'intervento di un Delegato curiale del Vescovo di Brescia, riuscì a placare gli animi accesi e derimere la diatriba. Da Losine era pure quel Griffolino che nel 1257 assunse l'importante carica di Podestà della Signoria di Brescia, mentre un certo Miletto Griffi da Losine ricoprì la prestigiosa carica di Capitano del popolo a Bologna.
Del castello più famoso della Valle Camonica, quello di Breno, se ne parla diffusamente sia nella storia che nel capitolo dedicato al paese di Breno ma va ricordato che fu di origine quasi sicuramente longobarda e le sue poderose muraglie poste un altopiano vedono il fabbricato centrale come struttura più antica, mentre i muri esterni sono stati aggiunti in epoche diverse (molte volte dopo la loro demolizione in assedi e conquiste). Questo castello, dopo il lungo periodo longobardo, in cui risiedeva certamente qualche nobile con la sua famiglia, non fu però mai la dimora di potenti famiglie locali: era infatti una struttura difensiva strettamente militare e non residenziale. Subì una lunghissima serie di assedi tra cui quelli più lunghi e devastanti tra gli opposti schieramenti del Ducato di Milano e della Serenissima Repubblica Veneta che videro gli assediati divenire più volte assedianti e viceversa negli anni 1427, 1433, 1438, 1453, 1512 ecc. In tempo di pace, la rocca brenese venne adibita a centro amministrativo, giudiziario e politico della Valle Camonica. Anche attorno alla sua presenza e alla sua centenaria storia sono nate numerose leggende. Si racconta, nel bel romanzo Valvassori Bresciani, ad esempio, che all'epoca delle lotte di questi con l'autorità del capoluogo, vi sia rimasta rinchiusa per molto tempo la giovane Engarda, figlia di Ardiccio degli Aimoni, e che soltanto una banda armata al comando dell'ardito Leutelmonte, abbia poi potuto trarla in salvo dopo aver ucciso le guardie di custodia. Un'altra leggenda narra di una triste figura di donna, Otruda Federici, "dalla bionda capigliatura fluente sulle spalle come una carezza", che trascorreva molte ore del giorno su una loggetta del castello "con la testa fra le mani e lo sguardo fisso là, ad un punto, lontano".
A Lozio, riportati alla luce all'inizio del 2000, sono ancora riconoscibili i ruderi dell'antica possente rocca dei Nobili, nella quale venne sterminata la famiglia del feudatario e che nel 1453 resistette con eroico furore ai violenti assalti dei soldati milanesi.
A Borno sono ancora visibili (e in parte recuperate) alcune delle sette torri che svettavano sul centro abitato di quello che fu uno dei borghi più ricchi della valle. Nella parte più a nord del vecchio nucleo storico sorge tutt'ora una ampia costruzione chiamata "'l castel" che fu dimora fortificata sulla strada che conduceva poi verso la Valle di Scalve.
Nei borghi di Cividate, Bienno, Esine ed Erbanno, si possono tutt'oggi vedere delle antiche torri, molte trasformate successivamente in dimore nobiliari.
Sopra l'abitato della piccola frazione di Plemo di Esine, su due poggi diversi ma molto vicini, erano poste addirittura 2 rocche distinte, ora visibili solo per alcune muraglie diroccate, che danno comunque, anche oggi, la sensazione di quanto fossero importanti queste strutture militari per dominare il passaggio sulla sottostante via Valeriana. Le due strutture furono dal 1288 di proprietà della famiglia Beccagutti. In una delle rocche visse la "Dolce Emma", figlia del Valvassino di Esine, segretamente innamorata di Leutelmonte ma che il padre destinò a essere moglie (infelice) di Azzone Federici da Brescia.
Del famoso castello di Montecchio, citato innumerevoli volte nella storiografia camuna, dove nel maggio del 1200 si firmarono i famosi accordi fra le Vicinie ed i feudatari locali, non restano altro alcuni tratti di muri diroccati. Una leggenda popolare diffusa in bassa Valle Camonica (mai accertata), narrava che dalle segrete sotterranee del maniero partivano due gallerie sotterranee, una con una uscita verso la rocca di Plemo e l'altra invece dalla parte opposta verso il castello di Gorzone.
A Gorzone, a strapiombo sul Dezzo, sorge ancora oggi in modo stupendo, dopo le opere di restauro degli anni 2000, una "casa residenziale" dei Federici del ramo di Gorzone. Il fabbricato, unico nel suo genere nell'intera provincia di Brescia, esisteva almeno, nella sua struttura attuale, fin dal 1150: pur essendo una dimora fortificata però non è mai stata dotata di torri ne bastioni ne fossati difensivi. Anche oggi si possono ammirare numerose stanze signorili ed un bel porticato sorretto da robuste colonne. Sul suo portale d'ingresso, spicca, insieme all'insegna dei Federici, lo stemma degli Scaligeri di Verona, che fu posto subito dopo il matrimonio fra una nobile della famiglia dei Della Scala ed un illustre membro della famiglia Federici.
- 1467: 21 MARZO: a Brescia viene concessa la cittadinanza bresciana al camuno Stefano Federici, professore di materie giuridiche, apprezzato anche a Parigi come "chiarissimo lume della Sorbona", autore di alcune opere.
Ma la Valle Camonica, proprio nelle sue propaggini più a nord, era sempre comunque terra di confine e così, all'inizio del XVI secolo, vennero segnalate delle scaramucce e delle invasioni di soldati svizzeri e tedeschi che giunsero fino ai passi dell'Aprica, del Mortirolo e del Tonale minacciando i confini nord della Serenissima.
Aria di altre guerre spirava però già da alcuni anni: l'espansionismo di Venezia sulla terraferma del nord Italia faceva paura, incuteva invidie e timori agli altri Stati Italiani che si unirono in una nuova Lega, facendo intervenire, come era consuetudine, anche sovrani stranieri.
Il Maggior Consiglio deliberò allora un generale rafforzamento dei numerosi capisaldi difensivi camuni e pose in atto una serie di coscrizioni obbligatorie in valle, per gli abili alle armi, che dovevano servire sotto le insegne dell'esercito di Venezia.
Grande era divenuta all'improvviso la minaccia ai confini nord della Valle Camonica, poiché, nel 1509, era in pieno svolgimento la guerra voluta dagli stati membri della Lega che a Cambrais, l'anno prima (il 10 dicembre 1508), aveva raccolto sotto le stesse bandiere il Papa Giulio II, l'Imperatore Massimiliano d'Asburgo, Luigi XII Re di Francia e Ferdinando Re d'Aragona con la motivazione di contrastare direttamente la grande influenza in Italia e nei Balcani che aveva assunto Venezia (all'apogeo della sua potenza militare, economica e commerciale).
Le truppe Veneziane furono duramente sconfitte sul campo a Chiara d'Adda (1509), e la Serenissima si vide sottratta l'intera Valle Camonica che venne posta sotto il dominio della Corona francese di Luigi XII.
Ma i Camuni, dopo due anni di occupazione, colpiti dalla durezza e dall'arroganza delle truppe francesi e, nostalgici del "buon governo" veneto, incitati alla resistenza e guidati in una logorante guerriglia da Vincenzo Ronchi, nel 1512, riuscirono a cacciare le truppe di Luigi dalle valle.
Nell'ottobre dello stesso anno (1512) il Re francese, nell'ambito di altri scambi territoriali in tutta Europa, cedette Brescia e le sue terre alla Spagna che con il Vicerè Raimondo Cardona, come prima azione di occupazione diretta, mandò una nutrito manipolo di armati con alcuni cavalieri e diversi fanti, a presidiare il castello di Breno.
Per i tre anni successivi all'arrivo in valle degli Spagnoli, filo veneziani e spagnoli si combatterono apertamente e a più riprese, anche se non vi furono battaglie di grande importanza ma solo della scaramucce e degli scontri di portata limitata.
Nessuno prevalse nettamente, fino al 1515, quando Francesco I di Valois, succeduto a Luigi XII sul trono di Francia e, proponendo l'ennesimo voltafaccia, alleatosi con Venezia, sconfisse a Melegnano le truppe spagnole, tedesche e pontificie (che solo tre anni prima erano sue alleate), consentendo alla Serenissima di riprendersi Brescia e la Valle Camonica.
Finalmente con la pace di Noyon (1516) anche per la valle ebbe inizio un lungo periodo di pace e di un certo benessere, garantiti dalla stabilità politica e favoriti dallo sviluppo economico che era timidamente iniziato cinquant'anni prima con la prima occupazione della Valle da parte di Venezia, che aveva posto in atto un'avveduta amministrazione pubblica che incentivava gli affari e gli scambi commerciali.
In questo periodo si completò quel movimento di emancipazione locale teso ad assicurare autonomia, efficienza e garanzia istituzionale al Comune rurale camuno, inteso come effettiva "proprietà di tutti" e scaturito dall'esperienza comunitaria delle "Vicinie" che avevano da secoli una profonda radice popolare in tutta la valle.
Sorta attorno al mille come unico possibile mezzo popolare per contrapporsi ai numerosi e soffocanti privilegi feudali, la Vicinia legò inizialmente alcuni nuclei familiari o dello stesso paese a delle proprietà in comune (di solito terreni o attrezzi o piccoli spazi per conservare prodotti agricoli o caseari).
Poi la trasformazione lentamente divenne più radicale e socialmente più evoluta: infatti vi erano regolate tutte le attività della collettività secondo criteri democratici che favorivano l'omogeneità ma soprattutto infondevano una profonda maturità politica fino a dare, anche al più semplice cittadino, tutte le responsabilità civili e amministrative, contribuendo alla formazione di una radicata coscienza della propria entità politico-economica-sociale.
Questa istituzione popolare, che rimase viva e profondamente presente nelle mentalità e tradizioni camune, fino al XVIII secolo (ricordando che in Valle Camonica sono ancora, ai nostri giorni, "vive" alcune Vicinie), costituì, in embrione, il Comune rurale, che iniziò a differenziarsi dalla Vicinia fin dal secolo XV quando cominciò ad affermarsi in forma più complessa, compiuta e generalizzata un concetto nuovo: quello di "comunità", cioè di proprietà conquistata ma specialmente condivisa dal popolo.
Le Vicinie regolavano anche la "vita sociale" e emanavano delle precise norme di comportamento che non interessavano solo l'economia e il lavoro ma anche, in parte, addirittura la vita religiosa della comunità.
Significativa a questo proposito, riportata nella sua interezza, la curiosa "deliberazione" della Vicinia di Borno (ricordata dal Goldaniga) che cita testualmente:
"Nel nome di Gesù Cristo, amen - L'anno corrente del Signore 1451 Indizione 14ma, il 1° del mese d'Agosto nella Piazza Pubblica della Terra del Comune di Borno al suono della campana e dalla voce del Banditore giusto l'usanza e per ordine di Bortolo Dona figlio del fu Gio da Tedati di Borno, Console di detta Terra, congregatasi tutta la vicinia, nella qual vicinia era presente lo stesso Console, e la massima parte dei Vicini, di detta Terra, i quali asserirono essere le due parti ed oltre delle tre parti di tutti i vicini della detta Terra aventivati nella vicinia, stabilirono ed ordinarono che ciascuna persona abitante ed appartenente alla stessa terra di Borno debba sia tanto in perpetuo di venerare e far venerare a far festa di cessare da ogni lavoro in ciascun anno nei seguenti infrascritti giorni. Cioè nelle Feste: Di San Cosmo - Di San Fiorino - Di san Vittore nel mese di Maggio- Dei Santi Fermo e Rustico - Di San Bernardo ai 14 Giugno - Dei Santi Sette fratelli 10 Luglio - Di San Pietro in Vimoli 1° Agosto - Santa Cristina. E ciò sotto pena di soldi dieci per ciascun maschio, e di soldi cinque per ciascuna donna. E ciò fecero perché ebbero notizia perché li sopradetti giorni si festeggiavano, e veniva ordinato che fossero festeggiati dai predecessori della detta Terra di Borno."
Fu a partire dalla seconda metà del 1500, anche se in modo lento e graduale, che la Vicinia, che rappresentava interessi di carattere strettamente locale e contingente, venne dapprima affiancata e poi lentamente assorbita dal Comune che, armonizzando interessi più vasti, riuscì a regolare meglio diritti e doveri di una collettività più complessa ma anche più aperta.
Dunque l'affermarsi, sia pure in forma ancora incompleta, del principio della sovranità popolare nell'ordinamento civile segnò il lento ma inesorabile tramonto del vecchio regime feudale che venne accelerato dallo smembramento delle grandi proprietà fondiarie delle grandi famiglie nobiliari, che la stessa politica amministrativa veneziana favoriva.
Dai pochi latifondi presenti sul territorio vennero così ad essere creati numerosi possedimenti di piccole dimensioni, spesso acquistati direttamente non solo da privati ma anche dalla Vicinia o dal Comune.
Il crescente sviluppo dell'artigianato, che assunse contorni di piccola industrializzazione e imprenditorialità con le radicate lavorazioni del carbone, del ferro, del legname e della lana (che in molti paesi risalivano all'epoca romana) portò ad una nuova "impostazione" della vita nella, fino ad allora, semplice società montana.
Una società che aveva fatto, proprio fin dal tempo della dominazione romana, ben pochi passi in avanti nello sviluppo socio-economico: ora non era più prevalentemente imperniata sulla semplice agricoltura di sopravvivenza e per la prima volta, nella storia camuna, i lavoratori "autonomi" (artigiani e piccoli imprenditori) della valle si riunirono in categorie al fine di difendere meglio i propri diritti e migliorare le proprie condizioni di vita.
Queste associazioni, adottando termini già in uso in altre contrade, furono chiamate coi nomi di Fraglia, Scola o Confraternita.
Politicamente la Valle Camonica, sotto la dominazione veneta, in grandi linee aveva l'aspetto di una "Repubblica federale", anche perché nè Vescovi, nè Capitani o Podestà riuscirono (pur tentandolo più volte) a limitare o spegnere le fortissime tradizioni comunali federative che da secoli erano presenti in Valle.
I "Camuni" iscritti nelle liste comunali erano tutti "originari" e appartenevano a comuni "indipendenti" che avevano amministrazioni largamente autonome e specialmente statuti propri.
Tutti i comuni dipendevano dai quattro Pievatici in cui era suddivisa la valle: Rogno, Cividate, Cemmo ed Edolo e tutti insieme erano sottoposti alla Comunità di Valle e formavano nel loro totale complesso l'Università Valligiana.
Comunque pur conservando i propri Statuti, la Valle, nella realtà contingente, era di fatto governata da Delegati di Brescia.
La Comunità di Valle Camonica, prima ebbe sede a Cividate Camuno, poi fu spostata in Breno, a partire dal 1400 e nel 1428 fu riconosciuta e riconfermata ufficialmente con una "Dogale" del Doge Francesco Foscari: la Valle, pur mantenendo una sua fisionomia amministrativa propria, dipendeva direttamente da Venezia tramite il Capitanio o Podestà che risiedeva e veniva nominato in Brescia.
Dunque fu dopo il 1440, dopo i vari "tradimenti e passaggi di campo" dei Camuni nelle varie guerre con Milano, che il Capitanio (Capitano) di Valle o un suo Vicario, fu sempre scelto tra nobili bresciani e fissò la sua residenza ufficiale a Breno.
Il Capitanio di Valle, con poteri giuridici e amministrativi dipendeva gerarchicamente dal Capitanio residente a Brescia che alle volte (anche se raramente) si identificava con il Podestà della Città.
Il Capitanio (o Capitano) di Valle, per il disbrigo degli atti inerenti il suo ufficio, aveva come collaboratori diretti: un luogotenente che lo sostituiva in caso di assenza o malattia, un Vicario e un Coadiuttore che mantenevano i rapporti con la città di Brescia, disbrigavano le pratiche e le corrispondenze di ufficio e avevano ampie deleghe amministrative.
L'ufficio del Capitanio poteva assumere, di volta in volta altri "ministri" ed "uffiziali" di giustizia a seconda delle necessità o dell'impellenza imposta da situazioni straordinarie.
La nomina di notabili e di patrizi di Brescia alle più alte cariche politico-amministrative della Valle Camonica fu sempre ritenuto un affronto dai Camuni, ma Venezia, come già scritto, dopo i molti "cambiamenti di fronte" e
tradimenti, da parte delle grandi e potenti famiglie della vallata dell'Oglio, durante le varie fasi delle numerose guerre, non riteneva di potersi fidare di questi insicuri "ora" sudditi.
Molti furono (ma sempre vani), nei secoli successivi, i tentativi di "spostare" le nomine di Capitani e Vicari di Valle dal patriziato bresciano a nomine fatte direttamente a Venezia su rappresentanti non bresciani.
Queste richieste non vennero mai accolte e questo stato di fatto divenne effettivo verso la fine del 1455 cioè dopo che Venezia ebbe completamente soggiogata e pacificata l'intera vallata dopo le lunghe, alterne, successive, frequenti e devastanti guerre contro il Ducato di Milano.
Dopo la conquista definitiva di tutto il territorio camuno (comprendente anche l'alto Sebino) e completata la "occupazione" anche "politica" della Valle, come nel resto delle nuove terre acquisite da Venezia, furono istituiti uffici giudicanti (di applicazione delle leggi e statuti) e amministrativi e tutti gli organi primari e jusdicenti furono accentrati sempre nella figura del Capitanio di Valle Camonica e del suo Vicario.
A queste due massime cariche venivano nominati dei patrizi e dei nobili bresciani il cui mandato durava un anno e avevano potere di giudicare in materia civile e criminale (penale).
In Valle Camonica, nell'ambito della Giustizia, però facevano eccezione le condanne che, in materia criminale, comportavano spargimento di sangue come la tortura fino alla morte e la pena capitale. In questi casi (non infrequenti) erano comunque sempre il Capitanio o il Vicario a istituire e a condurre direttamente il processo mentre la sentenza era sempre emessa in nome del Podestà Veneto di Brescia da cui il Capitanio di Valle dipendeva direttamente. Questo stato di cose, che era una importante limitazione al potere del Capitanio di Valle rispetto ad altri Capitani della terraferma Veneta, era un privilegio concesso alla Valle Camonica poiché era specificato che i giudici erano tenuti a giudicare unicamente sulla base degli "Statuti di Valle Camonica".
Il Capitanio di Valle, come tutti i funzionari veneti di alto grado, aveva grande potere ma era soggetto a regole particolarmente rigide tra cui quella che se non avesse "bene giudicato" secondo gli Statuti, sarebbe stato poi tenuto a pagare una forte multa consistente in una ammenda di 25 fiorini e al totale risarcimento di danni "a chi avesse subito torto".
Il Capitanio presiedeva anche tutti i Consigli facendone parte di diritto.
In altre terre e distretti, sotto la giurisdizione di Venezia, il Capitanio e il suo Vicario avevano ben più ampi poteri discrezionali, compresa la pena di morte. Questo privilegio (concesso con una apposita Dogale del 1455) era da ascrivere al fatto che Venezia, subito dopo la pace di Lodi, voleva tenersi buoni e fedeli i Camuni poiché la Valle era terra ancora di confine e proprio dalla Valle Camonica erano molte volte transitati grossi eserciti provenienti dal centro Europa che, passando dai valichi alpini dell'Aprica, del Mortirolo e del Tonale potevano poi dilagare nella pianura padana.
Era dunque un semplice calcolo politico: meglio avere gli irrequieti Camuni come alleati che come possibili nemici: questi sudditi erano troppo avvezzi al tradimento e concedendo loro alcuni privilegi sia economici che politici con buone probabilità si poteva averli dalla propria parte.
In effetti fu una politica lungimirante e che produsse buoni frutti.
Esisteva però un'unica eccezione che non limitava il potere del Capitanio, anche in Valle Camonica, nelle condanne a morte dirette, ed era quando vi era in gioco la sicurezza dello Stato e delle istituzioni della Repubblica: in questo caso il Capitanio o il suo Vicario potevano comportarsi a loro discrezione fino alla massima pena che comunque doveva essere ratificata dal Capitanio di Brescia che doveva tempestivamente informare il Senato Veneziano.
Amministrativamente il potere spettava invece ad organismi locali della stessa Valle Camonica e ai suoi rappresentanti ed aveva come massimi uffici:
-La Congregazione dei Deputati
-Il Consiglio Segreto
-Il Consiglio dei Ragionati
-L'Assemblea o Consiglio Generale.
Tutte queste assise e consigli erano composti unicamente da cittadini "originari" della Valle Camonica e iscritti negli appositi registri.
In tutti questi Consigli erano presenti per diritto: il Capitanio (Capitano), il suo luogotenente o Vicario, il Sindaco, l'Avvocato il Cancelliere e il vice Cancelliere, l'Jusdicente, il Presidente dello Spedale e il Tesoriere. La casata dei Federici era sempre rappresentata di diritto da un suo membro e aveva tutti i privilegi e doveri alla stregua di un pievatico.
Il Consiglio (o Congregazione) dei Deputati era composto da sette membri ai quali si dovevano aggiungere i membri di diritto. Era dotato di ampi poteri e poteva deliberare direttamente su tutte le questioni urgenti di carattere amministrativo. Era talmente ritenuto "onorato e onorevole" che, durante le messe solenni di celebrazione per l'insediamento, veniva "incensato" nella stessa misura in cui erano "incensati" il Capitano di Valle e il suo Vicario. Questo rito sottolineava, oltre allo stretto legame tra la Chiesa e il potere politico, anche la diretta investitura e riconoscimento, alle massime cariche civili, da parte del potere ecclesiastico e di tutti i suoi membri. Era un altissimo e ambito riconoscimento che Venezia aveva ottenuto dal Papato.
Il Consiglio dei Ragionati o Elezionari (paragonabile alla attuale Corte dei Conti) era composto da undici membri eletti dai quattro Pievatici in cui era divisa la Valle Camonica: Edolo, Cemmo, Cividate e Rogno, uno da casa Federici (più i soliti aventi diritto di cui il Capitano era il presidente) e cinque "antecessori immediati". Si riuniva tre volte all'anno e aveva il compito di sorveglianza contabile sulle finanze valligiane. Ma i suoi compiti più importanti erano quelli di eleggere e nominare gli undici "Ragionati aggiunti" che erano scelti: due per ognuno dei quattro Pievatici, uno del comune di Borno, uno di quello di Dalegno, uno della famiglia Federici.
Vi era poi il Consiglio Segreto, i cui membri erano scelti quattro per ogni Pievatico, due dei comuni di Borno e Dalegno e un Federici: il Consiglio Segreto dunque era formato da diciannove membri più gli undici Ragionati aggiunti (più i soliti aventi diritto) e aveva una amplissima autorità su questioni di carattere pubblico e attinenti al servizio della Serenissima Repubblica di San Marco e poteva essere convocato, in caso di urgenza, in qualsiasi momento in via straordinaria.
Infine vi era l'assemblea più vasta, il Consiglio Generale di Valle Camonica, composta dai novantasei membri scelti due per comune e due Federici: dunque, in totale, l'Assemblea (o Consiglio Generale) era composta da ben centocinquantaquattro Consiglieri, veniva convocata (meglio: si auto convocava) quattro volte all'anno. Novantasei erano i rappresentanti dei quarantotto comuni della Valle Camonica, 2 della famiglia Federici e tutti i componenti degli altri Consigli: 11 i Consiglieri dei Ragionati, 11 i Ragionati aggiunti, 19 i componenti del Consiglio Segreto, 7 i componenti del Consiglio dei Deputati (più i soliti aventi diritto). Il Consiglio Generale "ufficialmente" aveva tutti i poteri amministrativi poiché procedeva alla nomina delle varie cariche civili valligiane. Con voto segreto eleggeva anche il Sindaco e l'Avvocato di Valle e i delegati nei vari Consigli.
Il Sindaco di Valle Camonica era scelto e nominato solo tra gli "originari" di Valle Camonica ed era normalmente uno dei "primi signori", che erano i membri più rappresentativi delle grandi famiglie nobiliari camune. Di solito veniva scelto ed eletto tra coloro che "avevano appartenenza ad alto Censo e Nobiltà" ma in più casi venne nominato anche un "giureconsulto" particolarmente "noto e abile".
L'ambitissima carica di Sindaco di Valle Camonica, che, oltre a un certo (pur limitato) reale potere amministrativo, dava specialmente molto "lustro" a chi ne era insignito: fu monopolio per quasi trecento anni di poche famiglie camune tra cui vanno ricordate oltre ai frequenti rappresentanti dei numerosi rami della solita famiglia Federici che per quarantanove volte ottennero la nomina, anche gli Alberzoni che furono nominati per undici volte, i Ronchi di Breno, i Francesconi di Bienno e i Rizzieri di Ossimo.
Nel 1500 la Valle Camonica fu, anche lei, attraversata dalla funesta "caccia alle streghe" dovuta dalla diffusa superstizione, alimentata anche da un clero bigotto e parassitario che portava a vivere in una atmosfera di confusione sociale ma anche morale.
Sul Tonale si vagheggiava che tutte le streghe della valle si davano convegno fra urla e riti misteriosi per provocare tra "i boni omini e i loro famili" epidemie, disgrazie e ogni sorta di nefandezze.
Un testo edito a Brescia cita testualmente: "In Pisogne ed Edolo furono abbrucciate nel 1501 sessanta streghe e alcuni stregoni che assaltavano huomini donne, animali e, con i loro incantamenti, seccavano le herbe".
Nel 1518 furono condannate al rogo altre decine di donne che avrebbero, con i loro incantesimi e riti, "fatto morir huomini spargendo in aria pulvere avuta dal dimonio".
- 1518: 17 GIUGNO: a Pisogne vengono bruciate otto streghe. Nel mese successivo saranno messe al rogo una sessantina di persone fra Rogno, Cemmo, Edolo e Breno. Per porre fine alla caccia alle streghe interverrà in settembre il Consiglio dei Dieci.
Dopo il Concilio di Trento, indetto da Paolo III e concluso nel 1563 da Pio IV, in cui fu riformata la disciplina ecclesiastica (dopo Lutero e la grande spinta riformatrice… nella Controriforma che la Chiesa fu obbligata ad elaborare ed ad imporre), questa triste pagina di storia ebbe fine e i roghi cessarono di funestare le nostre contrade (come anche in altre vallate).
Nel 1500, al contrario di quanto era avvenuto fino ad allora (la lontananza geografica della Valle dalla Curia di Brescia… era buona scusa perché i Vescovi non salissero in valle) furono diverse le visite pastorali di Vescovi ma, sopra le altre, restò indelebile il ricordo della visita apostolica del famoso Arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Borromeo nel 1580, che per diversi giorni soggiornò, con tutto il suo seguito, nei principali paesi da cui emanò anche diverse "ordinanze curiali", specie per regolare la vita dei sacerdoti e del clero e per la edificazioni di nuove chiese o ampliamento di alcune già esistenti.
In questo lungo periodo di relativa tranquillità sociale spicca una tradizione curiosa, viva, con simili modalità, in alcuni dei più importanti centri della Valle Camonica (Breno, Vezza d'Oglio e Pisogne), dove, fin dal 1400, erano presenti anche le più importanti "fiere" e che aveva una rilevante funzione sociale, il "mettersi in mostra" (quasi un concorso di "bellezza") per le ragazze da marito. Le giovani dai 14 ai 20 anni (oltre erano considerate "vecchie", dopo avere indossato i loro costumi più belli ed essersi imbellettate, "passeggiavano" tra le bancarelle e i recinti degli animali, per farsi notare dai ragazzi. Nel suo "Curiosi Trattenimenti", padre Gregorio ricorda che le fiere e i mercati erano infatti "il canale per dove scorrono fiumi di soccorsi stranieri in beneficio dei paesani " e che nella nostra Valle le fiere si facevano " una a Breno da Sant'Antonio e una a Vezza da San Michele".
Forse la più rilevante era proprio quella di Breno che si svolgeva su diversi giorni, dal 17 al 31, gennaio nella piazza di Sant'Antonio.
La raccolta piazzetta nel cuore del paese era anche il cuore pulsante del borgo dato che in questo slargo si affacciavano la residenza del Capitanio di Valle e il palazzo del governo. Con una tradizione di cui si avrebbe sentore fino dal 1580, l'ultimo giovedì di gennaio, nell'ambito della fiera, si festeggiava il "giuedé de le bèle", la sfilata delle ragazze da marito di Breno provenienti in gran parte dalle "masù", le case sparse che caratterizzavano il comune. Data l'importanza della fiera, su cui convergevano anche i Camuni dei paesi di tutta la media Valle, vi era presenza di giovani donne anche da altri centri vicinori. Era questo un modo per permettere alle giovani ancora "pùte" di farsi vedere e approcciarsi (molto timidamente, con sguardi e ammiccamenti) con i coetanei "liberi" in vista di un fidanzamento (che poteva anche durare molti mesi ed anni) che poteva portare ad un matrimonio che però si sarebbe celebrato solo dopo l'approvazione delle rispettive famiglie.
La data più significativa a Breno era, per le ragazze, il 5 febbraio, a meno di una settimana dalla chiusura della fiera, quando cominciava la novena in onore del santo patrono: San Valentino: allora erano sempre in buon numero le "pùte" (in alcuni casi, rari, anche meno giovani… dai 21 ai 27 anni… poi una era destinata a restare a casa dei genitori ed accudire e fare da serva alla famiglia di origine) di Breno e della media Valle che salivano al santuario posto in posizione dominante il borgo, per chiedere "la gràssia" di trovare presto un buon marito. In molti casi poi si doveva anche registrare il disappunto di giovani del paese d'origine delle "belle" che (gelosi) provocavano risse e scontri, anche violenti, con i compaesani del giovane prescelto dalla "bèla", impedendo anche le "visite" (controllate dalle famiglie) tra i due promessi.
Famosa una violenta rissa tra due giovani di Breno e alcuni di Capo di Ponte quando, i due "fidanzati" di Breno, saliti al paese delle due ragazze che avevano "adocchiato" qualche giorno prima alla fiera, erano stati fatti segno di insulti e poi, dopo una scarica di botte, erano stati protagonisti di una precipitosa e ignominiosa fuga. Tutto finì davanti al Capitano di Valle con un tentativo di riconciliazione (sembra però che i dissidi non si appianarono se non con il passare del tempo… come… al tempo del ratto delle Sabine !)
Due secoli di pace, un buon progresso economico e un sempre crescente interesse, sostenuto anche da concrete iniziative legislative e normative, per i problemi del lavoro e dell'organizzazione sociale, specie nei ceti più bassi, furono tra i fattori principali che caratterizzarono la storia camuna nel lungo periodo in cui la valle fece parte integrante della Serenissima Repubblica Veneta.
- 1520: 26 giugno: il Senato veneto decide che tutto il ferro lavorato nelle fucine bresciane e camune e destinato ai mercati esteri, passi da Venezia. Ciò provoca una grave crisi nel settore.
- 1521: 17 ottobre: circa ventimila lanzichenecchi di Carlo V in guerra contro i francesi, dopo essere entrati nel territorio della provincia di Brescia sono costretti a deviare a Sarnico a causa della presenza di truppe venete, e prendono alloggio a Paratico. Raggiungono quindi la città, senza poter entrare perché protetta da truppe valtrumpline, e raggiungono Castenedolo e Montichiari. Nonostante l'impegno dello stesso imperatore, i lanzichenecchi compiono al loro passaggio saccheggi e distruzioni.
- 1532: 23 giugno: fa solenne ingresso in città il nuovo vescovo cardinale Francesco Cornaro.
- 1559: 24 ottobre: a Pontedilegno: un furioso incendio distrugge alcune decine di case.
- 1599: 30 dicembre: alla fine del secolo il territorio bresciano (città e provincia) conta 388.398 abitanti: è la più popolosa della Repubblica veneta e la maggior contribuente di tasse e dazi.
- 1610: 27 dicembre: a Brescia il podestà Giovanni da Lezze, concluso il mandato nel Bresciano, consegna a Venezia la relazione d'obbligo accompagnata dal "Catastico", grosso volume in cui è tracciato un quadro completo della situazione della città e della provincia. Per gli storici è diventato un documento fondamentale, ricco di preziose notizie sulla situazione bresciana fra il 1609 e il 1610.
- 1616: 9 gennaio: a Edolo il paese è raggiunto da truppe che giungono alla Valsabbia, al comando di Giacomo Negroboni, nel timore che le forze imperiali scendano dal Tonale per invadere la Repubblica veneta.
- 1621: 3 aprile: a Erbanno un grave fatto di sangue avviene nella notte. A causa dell'oscurità due signorotti amici, Andrea Palazzo e Tomaso Capitanio, si affrontano per le strade con le rispettive bande senza riconoscersi. Sul terreno rimangono sette morti, fra cui uno dei due signorotti.
- 14 giugno 1629 a Edolo le autorità veneziane inviano da Brescia tre carri di munizioni da guerra e alcune compagnie di fanteria per contrastare la possibile invasione di truppe imperiali. Altre truppe e munizioni saranno inviate nei giorni successivi.
- 1629: 26 giugno: a Brescia si verificano i primi casi della pestilenza o epidemia petecchiale che divamperà più tardi in tutto il territorio bresciano e farà centinaia di vittime anche in Valle Camonica.
- 1629: 21 ottobre: a Breno: dai "Diari Bianchi": "circa le ore 20 si spica una montagna et dirupando cade con grandissima ruina quasi sopra detta Terra fracassando il Cimitero della Chiesa et poi una mano di case et fienili con morte di moltissime persone"
- 1629: 14 giugno: a Edolo le autorità veneziane inviano da Brescia tre carri di munizioni da guerra e alcune compagnie di fanteria per contrastare la possibile invasione di truppe imperiali. Altre truppe e munizioni saranno inviate nei giorni successivi.
- 1630: 10 settembre: per ottenere protezione contro la gravissima epidemia di peste si diffonde anche in provincia (Rovato, S. Gervasio, Lumezzane, San Sebastiano e in parte in bassa Valle Camonica) la devozione a San Nicola da Tolentino. Nella chiesa del convento di S. Barnaba a Brescia si distribuiscono panini benedetti.
- 1631: 8 marzo: a Brescia la drammatica epidemia di peste, che l'anno precedente aveva decimato gli abitanti della città e del territorio, è finita: si riaprono i mercati e la vita riprende, sia pure con grande lentezza mentre aumenta la delinquenza con furti e appropriazione di beni degli scomparsi.
- 1631: 10 settembre: si scioglie il voto a San Nicola da Tolentino per la scomparsa della peste: alla messa solenne tenuta in ogni parrocchia viene fatto obbligo di partecipare ad ogni capofamiglia, pena la multa di 25 lire.
- 1634: 7 luglio: a Bienno ben 27 "officine" vengono distrutte dalla grande alluvione che crea gravissimi danni a numerosi paesi della media Valle Camonica, fra cui Esine, dove si contano 27 morti, Berzo Inferiore, Prestine, Braone e Niardo.
- 1638: 1° aprile: a Brescia si compie il censimento della popolazione (compresi i religiosi), e del bestiame dopo la peste "manzoniana" del 1630. In città risultano circa 35.000 abitanti e 320.000 in provincia
- 1651: 29 aprile: a Saviore: un pauroso incendio devasta l'abitato.
- 1652: 12 luglio: a Edolo: viene solennemente consacrata la chiesa parrocchiale con grande partecipazione di popolo.
- 1667: 15 maggio: su tutta la provincia di Brescia e in Valle Camonica un imprevisto ritorno del freddo è accompagnato da una nevicata che provoca gravi disagi alla popolazione e alla colture.
- 1676: 30 maggio: dopo giorni di piogge intense lo straripamento di alcuni torrenti provoca gravi danni nell'abitato di Darfo e nei borghi di Erbanno, Fraine e Gratacasolo.
- 1698: 14 ottobre: i rettori veneti proibiscono l'esportazione di castagne e per far fronte alla grave carestia gravano di dazi molti generi alimentari abitualmente venduti fuori confine. Per la Valle Camonica, grande produttrice di castagne anche da esportare è porta una crisi economica per molte famiglie.
- 1711: 2 febbraio: vengono diffuse le nuove disposizioni della Serenissima a sostegno della valuta veneta con la "Proibizione di monete minute forestiere d'argento e di rame stampate in Dalmazia e luoghi esteri". Sono vietati i "Toleri di Francia e di Germania".
- 1721: 15 giugno a Malonno: M. Antonio Martinengo, conte di Malonno, già bandito dalla città e confinato nelle sue terre camune, assalta assieme ad alcuni bravi un facoltoso possidente di Cedegolo; sarà condannato il 28 aprile 1723, ma Continuerà a compiere soprusi sino a quando verrà ucciso in uno scontro il 15 marzo 1750.
- 1739: 29 aprile: le autorità venete decretano la privazione dei feudi, dei diritti civili e dei titoli nobiliari per quanti si sfidano a duello. L'editto, emesso per arginare le contese della nobiltà, sortisce scarso effetto.
- 1740: 3 maggio: arriva un freddo improvviso con brine e ghiaccio che provoca danni alle campagne e ulteriori nevicate nei giorni successivi fanno crescere il prezzo del fieno
- 1753: 24 luglio a Ponte di Legno divampa furioso incendio e devasta parte del paese: sono arse dal fuoco decine di case.
- 1757: 31 agosto: dopo otto giorni di piogge Continue e insistenti a Cividate una alluvione danneggia molte abitazioni e sono colpiti dalla calamità anche i borghi di Grevo ed Erbanno.
Dopo la Continua espansione territoriale ed economica del XVI secolo, Venezia, raggiunto il suo culmine di potenza, si vide boicottata e "bloccata" dalle altre potenze Europee ma specialmente i grandi traffici con l'Oriente (di cui Venia deteneva quasi un monopolio), con la scoperta di altre terre, specie quelle oltreoceano, calarono di rilevanza economica e i flussi commerciali si spostarono su altre direttive e su altre vie marine e lentamente ma inesorabilmente, anche per lo spostamento verso il nord Europa di questi lucrosi flussi di commercio ormai mondiali, iniziò, per la Serenissima, un lento ma inesorabile e continuo declino.
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1428: Ritratto del Doge Francesco Foscari
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La debolezza militare e marittima, dopo le costose e pesanti guerre contro il mondo islamico, ma specie l'inerzia e il disimpegno politico segnarono per la Repubblica di San Marco l'ora della decadenza che inevitabilmente si concluse in disfatta (meglio disfacimento totale) alla fine del secolo XVIII, quando la Francia esportò anche in Italia la sua rivoluzione.
Il 15 maggio 1796 Napoleone irruppe in Milano e la Lombardia entrò direttamente nell'orbita di influenza francese.
Il 12 maggio di un anno dopo (1797) il Maggior Consiglio, nella sua ultima seduta in pompa magna, diede le dimissioni e si sciolse decretando così, dopo tanti secoli di grande storia, la morte ufficiale della Serenissima Repubblica di Venezia.
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