Fino da epoca remota e preistorica la zona prospiciente le terre su cui oggigiorno sorge il centro abitato, doveva essere frequentata dagli antichi Camuni tanto che sul colle del Cerreto (dominante tutta la bassa Valle Camonica a sud-ovest e la media Valle Camonica a nord-ovest), è stata ritrovata, sulla sommità, una famosa pietra squadrata di un'ara antica chiamata in dialetto locale "la prèda de l'altàr" (la pietra dell'altare).
Certamente si tratta di uno di quegli antichissimi centri di culto, posti in siti significativi per l'osservazione dei fenomeni naturali o per spaziare sulla natura dei luoghi, che riportano alla memoria i sacerdoti Druidi e i loro riti sacrificali di origine Ligure-Celtica, che per secoli sono stati ben presenti e fortemente radicati nella cultura delle numerose e selvagge valli Alpine e in Valle Camonica in particolare. Negli anni ottanta (1982/83) questa sacra pietra di altare fu gravemente danneggiata da vandali ignoranti e imperdonabili e da allora giace mestamente semisepolta tra il muschio e la vegetazione spontanea sulla vetta del Cerreto a testimonianza della criminale stupidità umana e della mancanza di rispetto per la spiritualità e la storia. Numerose sono le testimonianze dirette di una consistente presenza umana in epoca romana e proto cristiana. Queste sono state rinvenute nel sito su cui dovette presumibilmente sorgere un antico insediamento che si trasformò poi in un primitivo borgo, posto a cavallo del passaggio obbligato sul sentiero, per chi saliva verso il passo di Corcedomini e voleva raggiungere le valli laterali. Molte le lapidi, in alcune delle quali si parla di "fonti divine" o in cui sono ricordati alcuni nomi personali, tra cui sono leggibili quelli di due fratelli, entrambi appartenenti alla VI legione romana: Caio Domizio Docile e Lucio Stanzio Secondo. Sono citati anche un Quirino Antistio, un Quirino Valerio, e il nome di una ragazza, una certa Protona. Già dal nono secolo, con le donazioni carolinge, il monastero bresciano di San Faustino prima ed il vescovo di Brescia poi, ebbero vaste proprietà in zona, tant'è che nel 841 è citato dal vescovo Ramperto un "castrum Bienni cum curte". Da questa definizione si evince chiaramente che in questa zona doveva essere stato eretto un sito fortificato o addirittura un castello con una corte, forse su una delle quattro colline che circondano il paese che dominano la bassa Valle Camonica. Di questa costruzione non si hanno altre notizie precise e non si conosce l'esatta ubicazione poiché, anche se esiste un sito interno al paese che è chiamato, anche ai nostri giorni, "'l castèl" (il castello), questo luogo nulla ha a che fare con l'antica ubicazione di un'eventuale rocca antecedente all'epoca medioevale. Giunto tardi e tra non poche difficoltà e diffidenze (gli antichi riti pagani resteranno presenti ancora per molti secoli dopo l'arrivo in valle dei primi cristiani), il Cristianesimo in Valle Camonica raggiunse una diffusione capillare in ogni borgo e nelle varie vallette e altopiani solo a partire dall'anno mille, molte volte imposto con la violenza e le armi, prima dai Longobardi e poi dai Franchi. Fu solo nel 1150 che la Pieve di Cividate, la più vasta e antica della zona, che comprendeva più di venti altre parrocchie, concesse alla cappella dei Benedettini di Bienno un proprio fonte battesimale. Era questo il segno tangibile di una rilevante presenza dell'organizzazione religiosa e politica cristiana ormai radicata tra la popolazione anche a Bienno, ma significava anche una notevole libertà amministrativa che permetteva la riscossione diretta delle decime e di alcune servitù che potevano essere gestite in loco. Il fonte battesimale con la sua indipendenza rituale ed economica, fu concesso anche come ringraziamento per i numerosi lavori eseguiti nei restauri dei luoghi di culto esistenti, dai monaci seguaci di San Benedetto. Ma questo importante privilegio (significativo anche e soprattutto sotto l'aspetto economico-politico) fu aspramente contestato fuori da Bienno tanto che il vescovo di Brescia, da cui dipendeva la Valle Camonica e di cui aveva assunto il titolo anche di "Duca della ValCamonica", revocò la concessione. I biennesi, colpiti nell'orgoglio di comunità cristiana, ma anche (e specialmente !) interessati a gestire i propri cospicui fondi, facendo leva sulle aspre rivalità tra Chiesa e Impero, come era uso in quei tempi di grande confusione di competenze e priorità tra le autorità civili e religiose, scavalcando le autorità curiali bresciane e ricorsero all'Imperatore che, in netta contrapposizione alla precedente imposizione vescovile, nel 1173 concesse l'erezione a parrocchia autonoma. Nel 1230 (narra più una leggenda che storia provata) fu l'amatissimo San Antonio da Padova in persona, in visita pastorale in Valle Camonica, a porre la prima pietra per la costruzione, su un bellissimo colle, di un Eremo che fu successivamente dedicato ai Santi Pietro e Paolo. Questo Eremo, che con la sua possente presenza domina tutta la bassa e media Valle, raggiunse il suo massimo splendore nel 1600 ma fu soppresso nel 1768 e solo nel 1964 fu ristrutturato rispettando in gran parte le originarie strutture. Pur essendo digià un paese importante intorno all'anno mille, il secolo di massimo splendore per il ricco borgo di Bienno fu senz'altro il 1400. Di questo secolo e dell'importanza raggiunta da alcune famiglie biennesi rimangono numerose tracce e testimonianze nei monumenti, nelle molte dimore gentilizie e nobiliari dalle linee classiche e nella costruzione o riattamento delle torri dell'antico nucleo medievale, certamente uno dei più belli e meglio conservati della Valle Camonica, tanto che a Bienno è stato concesso di fregiarsi del titolo di uno dei "Borghi più belli d'Italia". Questo "centro storico" è ancora, ai nostri giorni, denominato "il Castello" e si distingue per le belle torri Avanzini in via Santa Maria, Morandini in vicolo Chiuso e Rizzieri in via Contrizio. Queste torri dovevano essere, in passato, più numerose poichè Bienno era soprannominato, in Valle Camonica, "'l paìs dè le set tòr": "il paese delle sette torri". La ricchezza (abbastanza diffusa anche tra la classe media biennese), per secoli, è stata determinata dalla lavorazione del ferro, giunta fino ai nostri giorni ma particolarmente attiva nel 1600 e 1700. Questa vera e propria arte nel trattare i metalli ferrosi e le sue leghe, nota e molto apprezzata in tutta la Lombardia e il Veneto è attestata ben prima del 1467, anno in cui il Doge di Venezia dovette risolvere una furiosa lite fra i fabbri di Bienno. Esasperati dagli scontri tra le botteghe dei vari "frèr" (fabbri), gli amministratori locali, anche loro divisi e a sostegno delle principali famiglie, avevano dovuto infatti ricorrere all'altissimo arbitrato del Doge (o suo delegato) poiché inutili erano stati anche gli interventi dei notabili e dei maggiorenti valligiani, che non erano riusciti a far da pacieri. Nel 1610, il rettore veneto Giovanni da Lezze, nel suo famoso censimento della Valle Camonica (Catastico), indicava come fossero attive a Bienno ben 15 fucine, dove veniva lavorato il metallo ferroso e le numerose sue leghe per la produzione di armi ed armature e ogni altro "attrezzo" militare e civile, come padelle, lamiere varie, semilavorati ecc. Anche Bienno fu, nel Medioevo, come altri centri della Valle Camonica, teatro delle infinite e cruente lotte fra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini e all'inizio del 1400 la locale popolazione si schierò apertamente dalla parte guelfa, capeggiata dai Nobili di Lozio, che fedeli alla Serenissima Repubblica di San Marco, si erano opposti, anche con successo, all'esercito Milanese del Duca Visconti e guidato dallo Sforza che tentava, per l'ennesima volta, di riconquistare la Valle Camonica dopo diverse vicende belliche di alterna fortuna. Anche sotto Venezia, gli "Originari" di Bienno, seguendo una tradizione molto radicata anche in altri paesi della Valle Camonica, fieri dei propri statuti e delle antiche tradizioni, tennero saldamente in mano gli organi amministrativi ed elettivi della "Vicinia", tutelando con questo i propri diritti ma salvaguardando anche i propri privilegi e le consuetudini locali, dalle pretese dei "forestieri" che volevano entrare, secondo loro, a pieno diritto nella gestione della "res publica" del paese. Questi, ormai trapiantati in buon numero nel comune, molte volte "tecnici o artigiani specializzati" in particolari lavorazioni, fecero ricorso al governo della Serenissima Repubblica Veneta, avviando numerose e, secondo loro, motivate cause per il riconoscimento dei propri diritti. I processi, le sentenze, le contro sentenze, i compromessi, i controricorsi si protrassero per secoli tanto che furono trasferiti, ancora nel 1862, dopo l'unità d'Italia, davanti al Consiglio di Stato e furono risolti solo nel 1924, dopo più di cinquecento anni… a quel punto poco importava a tutti quale era stata l'origine della diatriba !. La Vicinia era nata in contrapposizione allo strapotere e alle angherie dei feudatari locali, la Vicinia si realizzò per amministrare alcuni beni e proprietà comuni, per poi trasformarsi in un vero e proprio organo amministrativo che in seguito, subendo ulteriori modifiche, giunse a formare il primo embrione dell'entità comunale, in cui si gestivano anche proprietà in comune ma addirittura i calendari liturgici e i giorni festivi. Era retta da "Consoli" eletti ogni anno dai Capifamiglia, denominati come "fuochi" (nuclei familiari) e dai residenti denominati "Originari" e coadiuvati nelle pratiche amministrative dai "Reggenti". Compito principale (originario) era quello di regolare uno sfruttamento equo del patrimonio comune formato da boschi, segherie, forni, fucine, calchere, mulini, segaboli e dalle numerose malghe e alpeggi. Questi beni erano dati in appalto ai cittadini che ne facevano richiesta e assegnati, tramite incanti pubblici che si tenevano in piazza, la domenica, dopo la Messa Grande. Le riunioni della Vicinia si tenevano nella casa comunale e, durante il periodo invernale, per il freddo, nelle tiepide e accoglienti stalle. L'elezione dei Consoli e dei Reggenti avveniva per ballottaggio (con delle "balle" ossia delle piccole palle di pietra o legno colorato) in quanto la maggior parte degli aventi diritto al voto (i Vicini) erano analfabeti. Nelle riunioni generali venivano prese tutte le decisioni che poi regolamentavano i rapporti, non solo tra i "vicini", ma anche con la Curia, i feudatari e le comunità confinanti. Nell'elenco storico delle più antiche famiglie biennesi (gli "Originari") erano citati: Avanzini, Bontempi, Bodoncini, Bonali, Bellicini, Ercoli, Fanti, Fantoni, Fostinelli, Franzoni, Mendeni, Morandini, Sola. La millenaria storia di Bienno è sempre stata strettamente legata a quella dell'impetuoso torrente Grigna che, scorrendo da est verso ovest, costeggia l'antico nucleo abitato. Molte furono le catastrofiche inondazioni che periodicamente colpirono il paese e che vengono ricordate anche per i morti e le case o le officine distrutte. La più grave fu quella che nel 1634 provocò la morte di 17 persone, innumerevoli feriti, la perdita totale di 24 officine e il danneggiamento grave di numerose abitazioni ed edifici. Ma, pur colpiti duramente, sia l'industria che l'artigianato locale non subirono grossi rallentamenti o ripercussioni negative nella loro produzione, poichè, prima delle case distrutte, gli artigiani e gli imprenditori biennesi ricostruirono tutte le fucine danneggiate. Durante il periodo pre-Napoleonico, in piena epoca giacobina il biennese Giuseppe Fantoni si distinse, nel 1798, al comando delle colonne mobili dei "Cacciatori di montagna". Questi montanari si erano riuniti in un corpo di volontari e, infervorati e accesi dalle idee scaturite dalla Rivoluzione Francese, che erano state portate in Italia dalle truppe di occupazione francese, si raccolsero in una brigata che si pose agli ordini del governo provvisorio bresciano che era stato insediato dalle baionette francesi e dai cannoni del generale Buonaparte (non ancora Bonaparte… ne tantomeno Napoleone I) a capo dell'"Armeè d'Italie". Nel 1870 le fucine poste nel paese erano salite a 24 e in tutte vi erano in funzione più magli. L'accuratezza della lavorazione del metallo e la rinomanza di quest'arte biennese, aveva fatto in modo che si aprissero grandi e diversi mercati e fosse servita una vasta clientela anche fuori d'Italia… fin nella lontanissima Australia. Anche Bienno dovette subire la piaga dell'emigrazione e le punte massime furono negli anni 1904/1905 quando ben 214 Biennesi, su una popolazione di 2085 residenti, se ne andarono da casa e poi ancora negli anni dal 1946 al 1960: su 3292 residenti furono ben 911 quelli che emigrarono, molte volte all'estero e in paesi lontani. Bienno negli ultimi anni, dopo un periodo di declino a cavallo del 1800 e primi anni del 1900 in cui si presentò pesante anche la piaga dell'emigrazione e dopo la chiusura (anche in paesi vicinori) negli anni '80 del secolo scorso, delle fucine e di alcuni stabilimenti industriali, ha riscoperto il proprio passato valorizzandolo turisticamente con manifestazioni legate al mondo della lavorazione del ferro. Mostre, cicli di conferenze e visite guidate delle scolaresche sono ormai una radicata consuetudine. Con un tour organizzato, denominato "La Valle dei Magli", già dal 1990, è stato predisposto un interessante percorso tra le antiche "officine" del ferro in cui si può ancora ammirare la lavorazione del materiale sotto i possenti magli mossi dalle grandi ruote dei mulini ad acqua. Ai nostri giorni sono ancora in molti, quelli nati nella prima metà del 1900, a ricordare come fino a non molto tempo fa risuonava in tutta la zona il sordo e intervallato rumore dei magli che per secoli è stato l'accompagnamento sonoro della lunga storia di questo industrioso paese e questi "tonfi" cadenzati sono rimasti indelebile colonna sonora (nell'identificare Bienno nei ricordi personali) anche per il sottoscritto quando, da bambino, negli anni 50 e 60, andavo a trovare mio padre che lavorava in banca a Bienno. |